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La 'ndrangheta e la svolta del tritolo. Così l'altra mafia ha scelto la guerra

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di Roberto Saviano (www.repubblica.it/…)

CHI parla di mafia diffama il Paese? Chi parla di mafia difende il Paese. Le organizzazioni criminali contano molto: solo con la coca i clan fatturano sessanta volte quanto fattura la Fiat. Calabria e Campania forniscono i più grandi mediatori mondiali per il traffico di cocaina. Si arriva a calcolare che ‘ndrangheta e camorra trattano circa 600 tonnellate di coca l’anno, ed è una stima per difetto. La ‘ndrangheta – come dimostrano le inchieste di Nicola Gratteri – compra coca a 2.400 euro al kilo e la rivende a 60 euro al grammo, guadagnando 60.000 euro. Quindi con meno di 2.400 euro di investimento iniziale, percepisce una entrata pulita di 57.600 euro. Basta moltiplicare questa cifra per le tonnellate di coca acquistate e distribuite da tutte le mafie italiane e diventa facile capire la quantità di denaro di cui dispongono, al netto di cemento ed estorsioni.

E raffrontarla con il peso industriale delle imprese leader – che hanno molti meno profitti – per comprendere il potere che oggi hanno realmente nel paese e in Europa le organizzazioni criminali.

Proprio dinanzi a fatti come l’attentato di Reggio Calabria diventa imperativa la necessità di capire. È la conoscenza che permette di capire cosa stia accadendo. E non raccontare questa azione come un episodio avvenuto in un altro mondo, in un altro 1paese. Un paese di quelli lontani dove una bomba o un morto rientrano nel quotidiano. Le organizzazioni criminali italiane quando agiscono e quando decidono di mandare un segnale, sanno perfettamente cosa fanno e dove vogliono arrivare. La bomba non è stata messa davanti a una caserma, né alla sede della Direzione Antimafia, ma alla Procura generale. Il messaggio, dunque, è rivolto alla Procura Generale. E forse – ma qui si è ancora nel territorio delle ipotesi – a Salvatore Di Landro, da poco più di un mese divenuto Procuratore generale. Da quando si è insediato, il clima non è più quello che le ‘ndrine reggine conoscevano. Le cose stanno cambiando e le ‘ndrine non apprezzano questo cambiamento. Preferirebbero magari che le difficoltà burocratiche e certe gestioni non proprio coraggiose del passato possano continuare. Le mafie sanno che la giustizia italiana è complicata e spesso così lenta che è come se un bambino rompesse un vaso a sei anni e la madre gli desse uno schiaffo quando ne ha compiuti trenta.

Se volessero, le cosche potrebbero far saltare in aria tutta Reggio Calabria. La ‘ndrangheta possiede esplosivo c3 e c4. Decine di bazooka. Perché, allora, far esplodere una bomba artigianale davanti alla Procura, quasi fosse una lettera da imbucare? Evidentemente non volevano colpire duramente, ma lanciare un primo segnale, dare inizio a un "confronto militare". Anche l’operatività potrebbe essere stata di una sola famiglia, con una sorta di silenzio-assenso delle altre che in questo modo hanno reso il gesto collettivo.

Ora bisogna accendere una luce su ogni angolo della Procura generale, stare al fianco di chi sta attuando questo cambiamento. Capire se le ‘ndrine vogliono che una corrente prevalga sull’altra. Capire, parlarne, dare visibilità alla Calabria, alle dinamiche che legano imprenditoria, criminalità, massoneria, politica in un intreccio che fattura miliardi di euro di cui nessuno viene investito in Calabria e tutti fuori. Da Montreal a Sidney. E alla solita idiozia che verrà ripetuta a chi scrive di questi temi, ossia di essere "professionisti dell’antimafia", occorre rispondere che il vero problema è che esistono troppi "dilettanti" dell’antimafia.

Le mafie stanno alzando il tiro. O almeno, si sente in diversi territori una forte tensione. Dovuta a diversi motivi, non ultima la chiusura di importanti processi, come il terzo grado del processo Spartacus di cui fra pochi giorni verrà pronunciata la sentenza. I Casalesi potrebbero agire militarmente dopo una condanna definitiva. Avevano nei loro referenti politici una sorta di garanzia che si sarebbero occupati dei loro processi. In caso di ergastoli, gli inquirenti temono risposte e l’attenzione mediatica dovrebbe essere massima, ma non lo è.

A Reggio Calabria l’arresto di Pasquale Condello, nel giugno dell’anno scorso, fatto dai Carabinieri comandati da una leggenda del contrasto alle ‘ndrine, il colonnello Valerio Giardina, ha rotto gli equilibri di pace. Pasquale Condello detto "il supremo" era riuscito a mettere pace tra le ‘ndrine di Reggio dopo una faida tra 1985 e il 1991 tra i De Stefano-Tegano e Condello-Imerti che aveva portato ad una mattanza di più di mille persone. Condello faceva affari ovunque: senza un suo si o un suo no nulla sarebbe potuto accadere a Reggio. Quindi è anche alla sua famiglia che bisogna guardare per capire da dove è partito l’ordine della bomba. La sua capacità di aprire verticalmente e orizzontalmente i propri affari era la garanzia di pace. All’inizio di ottobre, la famiglia Condello è persino riuscita ad ottenere la lettura delle parole di felicitazione diBenedetto XVI trasmesse nella cattedrale di Reggio Calabria da don Roberto Lodetti, parroco di Archi, agli sposiCaterina Condello e Daniele Ionetti: la prima, figlia diPasquale; il secondo, il figlio diAlfredo Ionetti, ritenuto il tesoriere della cosca. "Increscioso e deplorevole" ha definito l’episodio il settimanale diocesano l’Avvenire di Calabria. La prassi vuole che quando gli sposi desiderano ricevere un telegramma o una pergamena del papa, ne facciano richiesta al parroco o ad un prete di loro conoscenza, il quale trasmette la richiesta all’ufficio matrimoni della Curia. Non è il telegramma a destare scandalo quanto piuttosto il via libera dato dalla Curia reggina per le nozze in cattedrale di due rampolli di una potentissima ‘ndrina calabrese. Difficile credere che non si sia prestata attenzione ai cognomi dei due sposi. Anche perché Caterina Condello e Daniele Ionetti sono cugini di primo grado e il diritto canonico (art. 1091) consente un matrimonio tra consanguinei solo con motivata dispensa richiesta dal parroco e sottoscritta dal vescovo.

Il clan Condello da oltre 25 anni ha comandato a Reggio. I matrimoni dovrebbero essere molto controllati e i preti dovrebbero davvero interessarsi alla motivazione delle unioni. Nel 2003 fu sequestrata una lettera a Cesena a casa di Alfredo Ionetti, lettera scritta dalla moglie del Supremo, Maria Morabito. In questa lettera spedita a un’amica si parlava dell’altra figlia femmina, Angela: "Cara Anna (…) mia figlia ha dovuto lasciare un bel ragazzo solamente perché, nel passato, alcuni suoi parenti erano nemici di mio marito (…) Non c’è stato niente da fare, hanno dovuto smettere (…) Avevo sperato in un futuro migliore per mia figlia, che sarebbero stati bene insieme. (…) Ma dobbiamo portare la nostra croce…".

Le famiglie di Reggio vivono di questi vincoli, e spesso le prime vittime sono i familiari. In questo contesto, rompere il ruolo del sacramento religioso come patto di sangue tra mafiosi è qualcosa che solo i sacerdoti coraggiosi – e per fortuna ce ne sono – possono fare.

È importante che le istituzioni diano una risposta forte dopo la vicenda dell’attentato in Calabria. Quindi è bene che Maroni visiti Reggio, ma dovrebbe farlo anche il Ministro della Giustizia. Ai messaggi mafiosi bisogna rispondere subito, duramente, e soprattutto comprendendoli e non lasciandoli passare come un generico assalto alle istituzioni. Le mafie sanno che la più grande tragedia e la più grande festa non durano per più di cinque giorni. Quindi l’attenzione si abbassa, il giunco si cala e passa la china. Oggi la situazione storica sembra pericolosamente somigliare a quella già passata in Sicilia. Non è questo un governo con la priorità antimafia, non è questa un’opposizione con una priorità antimafia. Nonostante gli sforzi degli arresti.

Ad esempio: la legge sulle intercettazioni. Nella lotta alla mafia sono uno strumento indispensabile. E ora diviene talmente difficile poterle fare e ancora più poterle far proseguire per un tempo adeguato per ottenere dei risultati, che la macchina della giustizia viene nuovamente oberata di burocrazia, rallentata. Si rischia di privare gli inquirenti dell’unico strumento capace di stare al passo con una criminalità che dispone di ogni mezzo moderno per continuare a fare i propri interessi. Se i magistrati si trovano davanti a grossissime limitazioni nell’uso delle intercettazioni, è come se dovessero tornare a combattere con lo schioppetto contro chi possiede nel proprio armamentario ogni sofisticato dispositivo tecnologico. L’altro problema sta in ogni disegno che cerca di accorciare i tempi processuali. Abolito il patteggiamento in appello, resta in vigore il rito abbreviato. Per un mafioso è conveniente: così – fra vari sconti e discrezionalità della pena valutata dai giudici – va a finire che spesso un boss può cavarsela con cinque anni di galera. Per lui e il suo potere non sono nulla, anzi sono quasi un regalo. E questa situazione col disegno sul processo breve cambia, ma solo in peggio.

Per i reati di mafia bisogna fare il contrario: creare un sistema più certo e più serio delle pene, tale da rendere non conveniente essere mafiosi. La pena deve essere comminata in dibattimento, senza possibilità di abbreviazione del rito. Lo stato non può rinunciare a celebrare processi regolari contro chi si macchia di certi reati e, peggio ancora, inquina il suo stesso funzionamento. Non si tratta di giustizialismo, ma semplicemente dell’esigenza che una condanna equa scaturisca da un processo fatto come si deve.

Questo governo agisce soprattutto a livello di ordine pubblico. In primo luogo con gli arresti, che divengono l’unica prova dell’efficacia della lotta alla mafia. Ma l’esecutivo non ha approntato strumenti per colpire il punto nevralgico delle organizzazioni criminali: la loro forza economica. Sì certo, i sequestri di beni ci sono, ma i sequestri dei beni materiali sono il risultato di imprese che invece ancora proliferano e di un sistema economico che non è stato affatto aggredito. Sul piano legislativo sarebbe gravissimo reimmettere all’asta i beni dei mafiosi. Li acquisterebbero di nuovo. Lo scudo fiscale per le mafie è un favore. E questa è la valutazione di moltissimi investistigatori antimafia. Bisogna fare invece altro. Intervenire sul piano legislativo altrove. Cominciare col mettere uno spartiacque tra i reati comuni e quelli della criminalità organizzata. Ma bisogna anche smettere una volta per tutte di definire "diffamatori" coloro che accendono una luce sui fenomeni di mafia. Anche perché non è purtroppo con l’episodio di Reggio che si chiude una vicenda. Questo è soltanto l’inizio.

© 2010 Roberto Saviano.
Published by arrangement with Roberto Santachiara Literary Agency

L'ombra che arriva su Capaci e via D'Amelio

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di Giuseppe d’Avanzo (la Repubblica.it )

CI sono due frasi che – tragiche e spaventose, se vere – vanno estratte dal reticolo di parole dette a Torino da Gaspare Spatuzza. Condannato all’ergastolo per sette stragi e quaranta omicidi, ora testimone dell’accusa, il mafioso di Brancaccio definisce con una formula inedita Cosa Nostra. La dice "un’organizzazione terroristica mafiosa". La novità è nell’aggettivo terroristica, naturalmente.

Mai un mafioso lo aveva detto e ammesso. Dirlo, ammetterlo conferma che, dentro Cosa Nostra, esiste (o è esistito) un forte potere centrale di decisione, la presenza di una forza militare molto efficiente e determinata, ma soprattutto la volontà di abbandonare, al tramonto della Prima Repubblica, la tradizionale posizione di deferenza parassitaria verso l’establishment per condizionare le politiche, gli uomini e i governi della Seconda. La risoluzione – anche al prezzo di offrire l’indiscutibile prova della propria esistenza – postula la volontà di Cosa Nostra di costringere a un "patto" lo Stato, le classi dirigenti, il sistema politico nella scia un’escalation terroristica. Nel solco di questa strategia c’è la seconda, drammatica dichiarazione, ancora senza riscontro, che Gaspare Spatuzza ha offerto all’aula di Torino.

È un j’accuse che non si era mai letto nei verbali di interrogatorio acquisiti al processo: "Berlusconi e Dell’Utri sono i responsabili delle stragi del 1992/1993". Il 1992 è l’anno degli eccidi di Capaci e di via D’Amelio. Quindi, non solo dell’assalto ai beni artistici della penisola (Uffizi, Torre dei Pulci, l’Accademia dei Georgofili a Firenze; la Galleria di Arte moderna a Milano; San Giovanni in Laterano e S. Giorgio al Velabro a Roma), ma il capo del governo e il suo più stretto collaboratore, nell’avventura imprenditoriale e politica, sarebbero addirittura gli ispiratori anche dell’assassinio con il tritolo di Giovanni Falcone (23 maggio 1992) e Paolo Borsellino (19 luglio 1992).

Con poche frasi che nessuno in aula ha avuto voglia di approfondire per il momento (accettabile forse per la difesa, incomprensibile per l’accusa), Gaspare Spatuzza riscrive così le mappe che hanno orientato finora le mosse dei magistrati; la geografia dell’ambiguità endemica della politica italiana nei confronti della mafia; gli archetipi e le prassi di Cosa Nostra. La prima prova pubblica del mafioso di Brancaccio come testimone dell’accusa – diventata happening mediatico, teatro un po’ noioso, spettacolo mediocre – incuba tutte le originalità di una stagione che può avere effetti micidiali per la scena politica e istituzionale, lungo le linee di confine dove la politica incontra la mafia, negli ingranaggi della macchina giudiziaria. L’alambicco genera molte cose nuove. Possono essere memorizzate in qualche quadro.

Morte di un processo, Spatuzza prepara l’esplosivo per fare secco Paolo Borsellino. Ruba l’auto, la "prepara" per via D’Amelio. Non è, nel 2008, tra i condannati. Ora si autodenuncia. Offre le prove della sua responsabilità diretta (dice: controllate i freni dell’auto, sono nuovi perché – prima della strage – li ho voluti rifare). I controlli confermano e smascherano i "collaboratori di giustizia" di quel processo risolto con condanne definitive. Si chiamano Salvatore Candura e Vincenzo Scarantino. Si erano autoaccusati. Candura ora ammette le fandonie. Tutti i processi, nati dall’assassinio di Paolo Borsellino vanno celebrati di nuovo, liberando gli innocenti.

Quelle sentenze, la loro "verità storica" è ormai scritta sull’acqua. Spatuzza incamera un’alta credibilità (come liquidarlo da questo momento?). Infligge al lavoro istruttorio della procura di Caltanissetta uno sbrego perché le confessioni decisive sono impure. Apre una questione: chi ha deciso e orientato il gioco pericoloso degli investigatori, così selettivamente sordi ai dati da convalidare le parole di Candura e Scarantino, mediocri narratori, forse addirittura a scrivergliele? Quale interesse hanno coltivato in quegli anni difficili (1992/1994) le burocrazie della sicurezza? Strategia unica Giovanni Falcone muore perché doveva morire, perché doveva essere punito. Paolo Borsellino, per ragioni ancora oggi misteriose. Questo ci è stato sempre raccontato. La morte di Falcone, l’assassinio di Borsellino – al contrario – non sono due iniziative distinte, separate da un doppio movente.

Spatuzza rovescia convinzioni antiche di 17 anni con un ricordo. Dice: mi occupai io dell’esplosivo di via D’Amelio. Lo ritirammo a Porticello prima del "botto" a Capaci. Dunque la distruzione dei due magistrati è l’obiettivo di un piano che, fin dall’inizio, prevedeva anche la morte di Borsellino. L’omogeneità del progetto mafioso liquida – meglio, attenua – l’oscura controversia intorno alla "trattativa" avviata dagli ufficiali del Ros con Vito Ciancimino. Scioglie l’ipotesi che Borsellino sia morto perché, consapevole della trattativa dello Stato con i Corleonesi, vi si era opposto. Disegna un’altra scena.

Capaci, via D’Amelio, nel 1992, le bombe in continente, nel 1993, sono tappe di una lucida e mirata progressione terroristica che avrebbe dovuto distruggere nemici giurati e sapienti, aprire la strada a un sistema politico più poroso agli interessi di una Cosa Nostra, umiliata e sconfitta con la sentenza della Cassazione (1992) che rendeva definitive le condanne del primo grande processo alla mafia istruito dal pool di Caponnetto e Falcone. Trattative Se sfuma il valore del negoziato tra lo Stato e Cosa Nostra nel 1992, Spatuzza afferma che la trattativa con il sistema politico non si è mai spezzata. Mai, perché è stata sempre viva e costante dalla fine degli anni ottanta fino ad oggi. All’inizio (1987/1989) furono i socialisti, crasti che molto promisero e nulla mantennero. E’ la ragione che conduce a Roma, nel 1991, la créme dell’Anonima Assassini di Cosa Nostra.

Nella Capitale sono Giuseppe Graviano, Matteo Messina Denaro, Vincenzo Sinacori. Hanno "armi leggere". Devono uccidere Claudio Martelli (ministro di Giustizia), Giovanni Falcone (direttore degli Affari Penali), Maurizio Costanzo. Accade qualcosa in quel momento, dice Gaspare Spatuzza. Il tentativo rientra. Falcone sarà ucciso a Palermo con metodi terroristici, subito dopo Borsellino. Perché? Il testimone ritiene che, in quel momento, accade qualcosa. Muta il progetto. Appaiono nuovi soggetti. Non sono ancora un partito politico, ma presto lo diventeranno. E’ ingenuo pensare che Forza Italia nasca come "partito della mafia" come se l’esistenza di uno o più punti di contatto tra la macchina politica e la macchina mafiosa stabilisca un pieno rapporto di identità, come è altrettanto ingenuo credere che la nascita di un nuovo partito incubi in un vuoto pneumatico, nell’Italia delle sempreterne connessioni tra politica, affarismo e crimine. Dove sono i punti di giuntura di quel "sottomondo" che si immagina attivissimo nella crisi catastrofica del "sovramondo" della Prima Repubblica?

Spatuzza fa con chiarezza i nomi di Silvio Berlusconi e Marcello Dell’Utri. Sono loro i punti di giuntura e i mediatori e i garanti della nuova stagione. Sono loro "i responsabili", dice. Dunque, sono Berlusconi e Dell’Utri gli interlocutori di un Giuseppe Graviano che, in un giorno del gennaio 1994, annuncia gongolante ai tavoli del Doney di via Veneto a Roma che "tutto è andato a posto" e che "ci siamo messi il Paese nelle mani".

Enfasi a parte, ancora a Berlusconi e Dell’Utri pensano gli "uomini d’onore", si fa per dire, quando Filippo Graviano nel carcere di Tolmezzo dice: "Se non arriva quel che ci hanno promesso, è tempo che noi parliamo con i magistrati". E’ il 2004. Il negoziato è ancora in corso, con tutta evidenza. Cosa Nostra attende le mosse accondiscendenti del potere e, senza illusioni o lungimiranza, prepara i suoi nuovi passi. Con una formula mai così esplicitamente sperimentata: parlare con i magistrati e accusare chi "li ha venduti". Quindi, nella resa dei conti si utilizzerà lo Stato contro lo Stato, la magistratura contro il potere esecutivo che ha "tradito gli impegni" all’inizio di un nuovo ciclo di compromissioni politiche. E’ questa la trappola che abbiamo sotto gli occhi e lo scenario scandaloso a cui dobbiamo prepararci? E’ questa la missione di Gaspare Spatuzza? Le parole di un Capo Sono quelle che ancora mancano. Dice la verità, Spatuzza? Mente? O, come spesso accade ai testimoni, il mafioso di Brancaccio percepisce gli eventi di quegli anni a modo suo, se li è impressi nella memoria e la memoria li ha trasformati?

Anche per Spatuzza, come per Buscetta, Contorno, Mannoia, Cancemi, Giuffré, si pone una questione antica per le storie e i processi contro Cosa Nostra e i suoi protettori e amici esterni: il punto di vista dei mafiosi disertori non è mai stato quello della leadership che ha trattato direttamente con i grandi politici – mai una parola da Riina, Provenzano – ma quello dei "quadri, cui i capi hanno spiegato come stavano le cose, nella misura in cui ciò fosse possibile e opportuno". Il rischio è dare per buone le parole di una leadership mafiosa che, per governare uomini e territori, deve autocelebrarsi e autoaccreditarsi con capi, soldati, gregari facili a deformare le informazioni che ricevono, a semplificarle strumentalmente, incapaci di distinguere la complessità dei meccanismi che regolano il funzionamento del potere ufficiale.

Questa condizione oggi può essere spezzata dalle parole di Giuseppe e Filippo Graviano, attesi in aula l’11 dicembre. Sarà la loro testimonianza a mostrare, smentire od occultare il ricatto che la Cosa Nostra siciliana sembra spingere contro il governo e lo Stato. Finora i fratelli di Brancaccio hanno come accompagnato l’iniziativa di Gaspare Spatuzza. Gli hanno mostrato affetto e rispetto. Non si sono rifiutati al confronto con il disertore, al dialogo con i pubblici ministeri. Giocano una loro partita, che è ancora alla prima mano. Si sono detti "dissociati". Lo ha fatto Filippo. Giuseppe ha promesso "una mano d’aiuto per ricostruire la verità" delle stragi. Quindi, accettando di conoscerla dinanzi a un magistrato, ammettendo di esserne uno degli attori anche se non il protagonista. Burattini e burattinai La nuova strategia di Cosa Nostra vede la magistratura in un ruolo quasi ancillare. Deve raccogliere le parole dei testimoni; interpretare – per districarle – le "mezze parole" che anche leader come i fratelli Graviano lasciano cadere nei verbali; accettare il deposito di "pizzini" che Massimo Ciancimino consegna ai pubblici ministeri, decidendo in autonomia la convenienza e l’utilità.

La magistratura non appare oggi padrona del gioco. Con una guida delle indagini frammentate in quattro procure (Firenze, Caltanissetta, Palermo, Milano) più la procura nazionale antimafia, è testimone di una trama che non controlla, al più interpreta in attesa di vedere quali saranno le cose nuove che accadranno. Non la favorisce il silenzio di Silvio Berlusconi. La mafia lo chiama esplicitamente in causa. Ha già taciuto, avvalendosi della facoltà di non rispondere, nel primo grado e, ora che lo indicano addirittura come il responsabile delle stragi, tace ancora. Non sa che cosa ha in mente Cosa Nostra, che cosa vogliono Spatuzza e i Graviano. Incastrato da qualche incontro pericoloso e infognato in un mestiere dai risvolti opachi, fiuta insidie anche nelle domande apparentemente innocue. Nega tutto e non si accorge che, in poche mosse, potrebbe finire confinato in una posizione insostenibile, da dove minacciano di sradicarlo finanche gli avvocati di Marcello Dell’Utri che, dicono, di "non escludere di convocarlo come testimone" in un processo che non ha ancora liberato tutta la sua esplosività.

In 150mila contro le mafie e per i diritti

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di Libera Informazionewww.liberainformazione.org…

È il popolo degli onesti a scendere in piazza a Napoli. Sfilano in 150mila alla quattordicesima giornata della memoria e dell’impegno, tanti giovani, tante famiglie, insieme ai migranti campani, ai volontari dell’antimafia sociale, ai familiari delle vittime delle mafie. In marcia contro la criminalità organizzata, ma soprattutto in marcia per la giustizia e per i diritti.
Il 21 marzo di Libera e Avviso Pubblico si trasforma quest’anno in un rito civile ancora più carico di significati, per dire no alle cosche e al terrorismo, per onorare la memoria di chi è stato ucciso perché si è opposto ma anche delle “vittime del dovere”, per riscattare la bellezza di un paese assediato dai clan e dalla corruzione. Nel primo giorno di primavera il lungomare partenopeo è un simbolo, è il chilometro più bello d’Italia.
 
E Napoli ritrova un altro simbolo: Roberto Saviano sale sul palco in piazza Plebiscito, accanto a don Luigi Ciotti e Ilya Politkovskij, il figlio di Anna Politkovskaja, accanto ai familiari delle vittime delle mafie e ai tanti rappresentanti delle istituzioni. Arriva a sorpresa e la sua voce ricorda i nomi dei sei immigrati africani uccisi a Castelvolturno, della giornalista russa, delle vittime della faida di Scampia e di Annalisa Durante, uccisa a Forcella a soli 14 anni. È un messaggio ai camorristi, che il fondatore di Libera sfida e ammonisce: “Che vita è la vostra? Vi aspetta il carcere, la clandestinità, la morte. I vostri beni li confischeremo tutti. Fermatevi”. Ma è anche un messaggio alle istituzioni: “Saremo una spina nel vostro fianco, con le nostre idee e il nostro impegno” dice don Ciotti. Perché “bisogna dare vita ai diritti”, a quei diritti affermati dall’articolo 1 della Costituzione “che nessuno può mettere in discussione”, nel rispetto della giustizia sociale e della legalità, “un concetto che troppo spesso si piega a facili strumentalizzazioni per legittimare provvedimenti che vanno in direzione opposta”. Un messaggio alla politica “che calpesta tutti i giorni la legalità e la giustizia”.
 
Il corteo. Sono arrivati da tutt’Italia e da 30 paesi europei, con due navi e decine di treni, con 800 bus e centinaia di auto. Un fiume di gente, gioioso e composto. In testa i 500 familiari delle vittime, che portano le foto dei loro cari e aprono la marcia con le parole di Mameli. Sfila il popolo dell’antimafia, mentre dagli altoparlanti risuonano i nomi dei tanti caduti per mano delle mafie. Sono più di ottocento, ogni nome è un esempio. Chi si è opposto al pizzo e chi ha detto no, chi è morto perché ha fatto il proprio dovere, con la toga o con la divisa. È la memoria che si rinnova e si rafforza con i nomi delle vittime del terrorismo. La memoria che si fa globale con i dieci nomi delle vittime delle mafie europee.
 
I colori. Un corteo gioioso e festoso. I ragazzi delle scuole medie campane si vestono da clown, quelli di Lucca hanno il volto coperto da fazzoletti bianchi, perché “vogliamo guardare con altri occhi”. Dietro uno striscione giallo ci sono gli africani del Movimento dei migranti e rifugiati di Caserta, che marciano “Contro la camorra e il razzismo”. Magliette bianche con un codice a barre e un uomo con il cappio al collo ricordano che “La mafia ha un prezzo”.  “Vivo in mezzo alla mondezza, la vogliamo spazzare sta camorra o no?” dice ridendo Ugo, un bambino di Scampia. Gli studenti dell’Uds e dell’Udu cantano e ricordano che l’antifascismo è un valore. Dal camioncino parte un pezzo storico dei 99 Posse, “il sole splende forte a piazza Plebiscito”.
 
La denuncia e la speranza.
Ma quello di Napoli è anche un momento di protesta. Mario Congiusta – il padre di Gianluca, ucciso a Siderno dalla ‘ndrangheta – alza le mani coperte da guanti bianchi con una scritta che è un’invocazione: “Certezza della pena”. Claudio Fava dice secco a un cronista che lo interroga sul caso del sottosegretario Cosentino: “Non è vero che il governo non ci dà risposte, il silenzio è già una risposta". E Rita Borsellino parla con dolcezza ai ragazzi che la fermano e la salutano: “Avete visto in quanti siamo. Dobbiamo crederci, se ognuno di noi porta anche solo un’altra persona allora ce la possiamo fare”.

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Chiedete scusa a Beppino Englaro

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di Roberto SavianoRepubblica — 12 febbraio 2009

Da italiano sento solo la necessità di sperare che il mio paese chieda scusa a Beppino Englaro. Scusa perché si è dimostrato, agli occhi del mondo, un paese crudele, incapace di capire la sofferenza di un uomo e di una donna malata.
Scusa perché si è messo a urlare, e accusare, facendo il tifo per una parte e per l’altra, senza che vi fossero parti da difendere. Qui non si tratta di essere per la vita o per la morte. Non è così. Beppino Englaro non certo tifava per la morte di Eluana, persino il suo sguardo porta i tratti del dolore di un padre che ha perso ogni speranza di felicità – e persino di bellezza – attraverso la sofferenza di sua figlia. Beppino andava e va assolutamente rispettato come uomo e come cittadino anche e soprattutto se non si condividono le sue idee. Perché si è rivolto alle istituzioni e combattendo all’interno delle istituzioni e con le istituzioni, ha solo chiesto che la sentenza della Suprema Corte venisse rispettata.
Senza dubbio chi non condivide la posizione di Beppino (e quella che Eluana innegabilmente aveva espresso in vita) aveva il diritto e, imposto dalla propria coscienza, il dovere di manifestare la contrarietà a interrompere un’alimentazione e un’idratazione che per anni sono avvenute attraverso un sondino.
Ma la battaglia doveva essere fatta sulla coscienza e non cercando in ogni modo di interferire con una decisione sulla quale la magistratura si stava interrogando da tempo. Beppino ha chiesto alla legge e la legge, dopo anni di appelli e ricorsi, gli ha confermato che ciò che chiedeva era un suo diritto. È bastato questo per innescare rabbia e odio nei suoi confronti? Ma la carità cristiana è quella che lo fa chiamare assassino? Dalla storia cristiana ho imparato ha riconoscere il dolore altrui prima d’ogni cosa. E a capirlo e sentirlo nella propria carne. E invece qualcuno che nulla sa del dolore per una figlia immobile in un letto, paragona Beppino al "Conte Ugolino" che per fame divora i propri figli? E osano dire queste porcherie in nome di un credo religioso. Ma non è così.
Io conosco una chiesa che è l’unica a operare nei territori più difficili, vicina alle situazioni più disperate, unica che dà dignità di vita ai migranti, a chi è ignorato dalle istituzioni, a chi non riesce a galleggiare in questa crisi. Unica nel dare cibo e nell’essere presente verso chi da nessuno troverebbe ascolto. I padri comboniani e la comunità di sant’Egidio, il cardinale Crescenzio Sepe e il cardinale Carlo Maria Martini, sono ordini, associazioni, personalità cristiane fondamentali per la sopravvivenza della dignità del nostro Paese.
Conosco questa storia cristiana. Non quella dell’accusa a un padre inerme che dalla sua ha solo l’arma del diritto. Beppino per rispetto a sua figlia ha diffuso foto di Eluana sorridente e bellissima, proprio per ricordarla in vita, ma poteva mostrare il viso deformato – smunto? Gonfio? – le orecchie divenute callose e la bava che cola, un corpo senza espressione e senza capelli. Ma non voleva vincere con la forza del ricatto dell’immagine, gli bastava la forza di quel diritto che permette all’essere umano, in quanto tale, di poter decidere del proprio destino. A chi pretende di crearsi credito con la chiesa ostentando vicinanza a Eluana chiedo, dov’era quando la chiesa tuonava contro la guerra in Iraq? E dov’è quando la chiesa chiede umanità e rispetto per i migranti stipati tra Lampedusa e gli abissi del Mediterraneo. Dove, quando la chiesa in certi territori, unica voce di resistenza, pretende un intervento decisivo per il Sud e contro le mafie. Sarebbe bello poter chiedere ai cristiani di tutta Italia di non credere a chi soltanto si sente di speculare su dibattiti dove non si deve dimostrare nulla nei fatti, ma solo parteggiare. Quello che in questi giorni è mancato, come sempre, è stata la capacità di percepire il dolore. Il dolore di un padre. Il dolore di una famiglia.
Il "dolore" di una donna immobile da anni e in una condizione irreversibile, che aveva lasciato a suo padre una volontà. E persone che neanche la conoscevano e che non conoscono Beppino, ora, quella volontà mettono in dubbio. E poco o nullo rispetto del diritto. Anche quando questo diritto non lo si considera condiviso dalla propria morale, e proprio perché è un diritto lo si può esercitare o meno. È questa la meraviglia della democrazia.
Capisco la volontà di spingere le persone o di cercare di convincerle a non usufruire di quel diritto, ma non a negare il diritto stesso. Lo spettacolo che di sé ha dato l’Italia nel mondo è quello di un paese che ha speculato sull’ennesima vicenda.
Molti politici hanno, ancora una volta, usato il caso Englaro per cercare di aggregare consenso e distrarre l’opinione pubblica, in un paese che è messo in ginocchio dalla crisi, e dove la crisi sta permettendo ai capitali criminali di divorare le banche, dove gli stipendi sono bloccati e non sembra esserci soluzione. Ma questa è un’altra storia.
E proprio in un momento di crisi, di frasi scontate, di poco rispetto, Beppino Englaro ha dato forza e senso alle istituzioni italiane e alla possibilità che un cittadino del nostro Paese, nonostante tutto, possa ancora sperare nelle leggi e nella giustizia. Sarebbe bello se l’epilogo di questa storia dolorosa potesse essere che in Italia, domani, grazie alla battaglia pacifica di Beppino Englaro, ciascuno potesse decidere se, in caso di stato neurovegetativo, farsi tenere in vita per decenni dalle macchine o scegliere la propria fine senza emigrare.
È questa l’Italia del diritto e dell’empatia – di cui si è già parlato – che permette di rispettare e comprendere anche scelte diverse dalle proprie, un’Italia in cui sarebbe bellissimo riconoscersi.
© 2009 by Roberto Saviano Published by arrangement with Roberto Santachiara Literary Agency

Perché ho il diritto di scegliere la mia morte

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di Umberto EcoRepubblica — 12 febbraio 2009

Benché il problema mi turbasse molto, e forse proprio per questo, ho cercato negli ultimi mesi di non pronunciare alcun giudizio o opinione sul caso Englaro, per molte e sensate ragioni, ma anzitutto perché non volevo partecipare alla canea di chi stava sfruttando per ragioni ideologiche, da una parte e dall’altra, la vicenda di una sventurata ragazza e della sua famiglia.
Quando il presidente del Consiglio ha preso pretesto dal caso per tentare uno dei suoi ormai reiterati attacchi alla Costituzione, sono intervenuto con Libertà e Giustizia, in piazza, e mi sono unito agli appelli alla vigilanza. Ma nelle poche interviste che non ho potuto evitare ho sempre detto che le poche centinaia di persone che erano con me davanti a palazzo di Giustizia a Milano non erano lì a manifestare sul caso Englaro, perché ero pronto a scommettere che se si fosse fatta la conta si sarebbe visto che metà la pensavano in un modo e metà nell’altro, ma per protestare contro l’attacco al presidente della Repubblica, attentato bonapartista (ringrazio Ezio Mauro per aver rievocato questo precedente) su cui tutti erano d’accordo.
Adesso, sfogliando le gazzette, mi rendo conto come sia difficile dividere questi due problemi e quanta sottigliezza politologica, giuridica e (permettetemi) morale ci voglia a capire quanto i due problemi siano diversi. Ma cosa si può pretendere da chi, come accadeva secoli fa con Terenzio e gli orsi, ha preferito il Grande Fratello alla discussione su questi casi? Così mi sono trovato citato tra coloro che sul caso Englaro avevano idee chiare e decise. Intervengo per dire che non le avevo, altrimenti le avrei espresse. Solo che, ora che la ragazza è morta, forse si può parlare di questi problemi senza temere di far sciacallaggio su un corpo in sofferenza. In effetti non intendo parlare della morte di Eluana Englaro.
Voglio piuttosto parlare della mia morte, e ammetterete che in questo caso ho qualche diritto all’esternazione. Dovendo parlare della morte mia, e non di quella altrui, non posso non citare alcuni aspetti della mia vita, tra cui il fatto che qualche anno fa ho scritto un romanzo intitolato La misteriosa fiamma della regina Loana, dove il protagonista, dopo un primo incidente cerebrale per cui perdeva la memoria, cadeva nuovamente in coma. Non so se scrivendo volessi affermare qualcosa di scientificamente valido o cercassi solo un pretesto narrativo, ma fatto sta che ho impiegato più di cento pagine a far monologare il mio personaggio ormai in coma (non avevo allora calcolato se ridotto a vegetale, imputato di morte cerebrale o in coma eventualmente reversibile – segno che non avevo precise preoccupazioni scientifiche).
In ogni caso il personaggio, in quello stato che chiamerò di "vita sospesa", pensava, ricordava, desiderava, si commuoveva. Sapeva benissimo che probabilmente i suoi cari lo credevano ridotto allo stato di una rapa, o al massimo di un cagnolino dormiente, ma si accorgeva che i medici sanno pochissimo di quanto succede nel nostro funzionamento mentale, e che forse dove essi vedono un encefalogramma piatto noi continuiamo a pensare, che so, coi rognoni, col cuore, coi reni, col pancreas… Questa era la mia finzione letteraria (per calmare coloro che dall’eccezionale si attendono tutto, dirò che alla fine il mio personaggio sprofondava nel buio) ma devo dire che se l’avevo pensata era perché un poco ci credevo.
Non sono sicuro che là dove gli strumenti scientifici di oggi vedono solo una terra piatta, e una assenza di anima, ci sia del tutto assenza di pensiero – e lo dico con sereno materialismo, non perché ritenga che un’anima sopravviva alla morte delle nostre cellule ma perché non mi sento di escludere che – morte e definitivamente alcune cellule – altre non sopravvivano e prendano il controllo della situazione, testimoniando di una straordinaria plasticità non del nostro cervello (questo ormai lo sanno tutti) ma del nostro corpo. Insomma, siccome sospetto che quando si è sani si pensi anche con l’alluce, allora perché no quando il cervello non dà segni di vita? Non farei una comunicazione in merito a un congresso scientifico, ma in qualche modo ci credo.
Visto che c’è gente che crede al cornetto rosso lasciatemi credere a questo. Ora che cosa vorrei, se se mi trovassi in una situazione del genere? A cercare proprio col lanternino tutte le possibilità credo proprio che esse si riducano a tre. Prima possibilità, sopravviverei come una rapa, senza coscienza, senza poter dire "io", reagendo al massimo a qualche modificazione dell’umidità atmosferica, come se fossi una colonnina di mercurio. In effetti a queste condizioni non sarei più "io", ma appunto una rapa e non vedo perché dovrei preoccuparmi di me. La seconda possibilità è che in quello stato si riviva tutto il proprio passato, si torni all’infanzia, si abbiano visioni e si realizzino quelli che in vita erano stati i nostri desideri, insomma si viva una sorta di sogno paradisiaco. È un poco quel che accade al personaggio del mio romanzo, ma poi purtroppo anche lui cala nelle tenebre. La terza ipotesi è la più angosciante, è che in quella vita sospesa ci si interroghi su cosa faranno e penseranno di noi i nostri cari, si riviva col cuore in gola gli ultimi momenti di coscienza, si tema per l’orrido futuro che ci attende, o addirittura ci si consumi come ha fatto mia madre negli ultimi dieci anni che è sopravvissuta a mio padre, raccontando a noi figli, ogni volta che poteva, come era stata orribile la notte in cui mio padre era stato colto da infarto, e se non fosse stata colpa sua che aveva preparato una cena forse troppo pesante. Questo sarebbe l’inferno – e ho accolto quasi con sollievo la morte di mia madre perché sapevo che stava uscendo da quell’inferno. Adesso facciamo una botta di conti alla Pascal. Di tre possibilità solo una è gradevole, le altre due sono negative. In termini di roulette (e sui grandi numeri, tipo diciassette anni di vita sospesa) si è già perso in partenza. Ma il problema non è questo. Io sono pronto a dichiarare che, nel caso incorra nell’incidente della vita sospesa, desidero che non si protraggano le cure (anche se potrei perdere alcuni istanti o millenni di paradiso) per evitare tensioni, disperazione, false speranze, traumi e (permettetemi) spese insostenibili ai miei cari. Ma chi sono io per distruggere la vita a una, due, tre o più persone per la remota possibilità di avere qualche istante o qualche anno di paradiso virtuale? Io ho il diritto di scegliere la mia morte per il bene degli altri. Guarda caso, è quello che mi ha sempre insegnato la morale, e non solo quella laica, ma anche quella delle religioni, è quello che mi hanno insegnato da piccolo, che Pietro Micca ha fatto bene a dare fuoco alle polveri per salvare tutti i torinesi, che Salvo D’Acquisto ha fatto bene ad accusarsi di un crimine non commesso, andando incontro alla fucilazione, per salvare un intero paese, che è eroe chi si strappa la lingua e accetta la morte sicura per non tradire e mandare a morte i compagni, che è santo chi accetta l’inevitabile lebbra per baciare le piaghe al lebbroso. E dopo che mi avete insegnato tutto questo non volete che io sottoscriva alla sospensione di una vita sospesa per amore delle persone che amo? Ma dove è finita la morale – e quella eroica, e quella che mi avete insegnato, che caratterizza la santità? Ecco perché, turbato a manifestare la sia pur minima idea sulla morte di Eluana (non sono, maledizione, fatti miei, ma dei genitori che l’hanno amata più di quanto l’abbia amata Berlusconi, che ha sinistramente fantasmato sulle sue mestruazioni) non ho esitazioni a pronunciare la mia opinione circa la mia morte.
E all’amore che una morte può incarnare.
"Laudato s’ mi Signore, per sora nostra Morte corporale, – da la quale nullu homo vivente pò skappare: – guai a quelli ke morrano ne le peccata mortali; – beati quelli ke trovarà ne le Tue sanctissime voluntati, – ka la morte secunda no ‘ l farrà male". –

La corruzione inconsapevole che affonda il Paese

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di Roberto Saviano (http://www.robertosaviano.it/…)

La cosa enormemente tragica che emerge in questi giorni è che nessuno dei coinvolti delle inchieste napoletane aveva la percezione dell’errore, tanto meno del crimine. Come dire ognuno degli imputati andava a dormire sereno. Perché, come si vede dalle carte processuali, gli accordi non si reggevano su mazzette, ma sul semplice scambio di favori: far assumere cognati, dare una mano con la carriera, trovare una casa più bella a un costo ragionevole.
Gli imprenditori e i politici sanno benissimo che nulla si ottiene in cambio di nulla, che per creare consenso bisogna concedere favori, e questo lo sanno anche gli elettori che votano spesso per averli, quei favori. Il problema è che purtroppo non è più solo la responsabilità del singolo imprenditore o politico quando è un intero sistema a funzionare in questo modo.

Oggi l’imprenditore si chiama Romeo, domani avrà un altro nome, ma il meccanismo non cambierà, e per agire non si farà altro che scambiare, proteggere, promettere di nuovo. Perché cosa potrà mai cambiare in una prassi, quando nessuno ci scorge più nulla di sbagliato o di anomalo. Che un simile do ut des sia di fatto corruzione è un concetto che moltissimi accoglierebbero con autentico stupore e indignazione. Ma come, protesterebbero, noi non abbiamo fatto niente di male!

E che tale corruzione non vada perseguitata soltanto dalla giustizia e condannata dall’etica civile, ma sia fonte di un male oggettivo, del funzionamento bloccato di un paese che dovrebbe essere fondato sui meccanismi di accesso e di concorrenza liberi, questo risulta ancora più difficile da cogliere e capire. La corruzione più grave che questa inchiesta svela sta nel mostrarci che persone di ogni livello, con talento o senza, con molta o scarsa professionalità, dovevano sottostare al gioco della protezione, della segnalazione, della spinta.

Non basta il merito, non basta l’impegno, e neanche la fortuna, per trovare un lavoro. La condizione necessaria è rientrare in uno scambio di favori. In passato l’incapace trovava lavoro se raccomandato. Oggi anche la persona di talento non può farne a meno, della protezione. E ogni appalto comporta automaticamente un’apertura di assunzioni con cui sistemare i raccomandati nuovi.

Non credo sia il tempo di convincere qualcuno a cambiare idea politica, o a pensare di mutare voto. Non credo sia il tempo di cercare affannosamente il nuovo o il meno peggio sino a quando si andrà incontro a una nuova delusione. Ma sono convinto che la cosa peggiore sia attaccarsi al triste cinismo italiano per il quale tutto è comunque marcio e non esistono innocenti perché in un modo o nell’altro tutti sono colpevoli. Bisogna aspettare come andranno i processi, stabilire le responsabilità dei singoli. Però esiste un piano su cui è possibile pronunciarsi subito. Come si legge nei titoli di coda del film di Francesco Rosi "Le mani sulla città": "I nomi sono di fantasia ma la realtà che li ha prodotti è fedele".

Indipendentemente dalle future condanne o assoluzioni, queste inchieste della magistratura napoletana, abruzzese e toscana dimostrano una prassi che difficilmente un politico – di qualsiasi colore – oggi potrà eludere. Non importa se un cittadino voti a destra o a sinistra, quel che bisogna chiedergli oggi è esclusivamente di pretendere che non sia più così. Non credo siano soltanto gli elettori di centrosinistra a non poterne più di essere rappresentati da persone disposte sempre e soltanto al compromesso. La percezione che il paese stia affondando la hanno tutti, da destra a sinistra, da nord a sud. E come in ogni momento di crisi, dovrebbero scaturirne delle risorse capaci di risollevarlo. Il tepore del "tutto è perduto" lentamente dovrebbe trasformarsi nella rovente forza reattiva che domanda, esige, cambia le cose. Oggi, fra queste, la questione della legalità viene prima di ogni altra.

L’imprenditoria criminale in questi anni si è alleata con il centrosinistra e con il centrodestra. Le mafie si sono unite nel nome degli affari, mentre tutto il resto è risultato sempre più spaccato. Loro hanno rinnovato i loro vertici, mentre ogni altra sfera di potere è rimasta in mano ai vecchi. Loro sono l’immagine vigorosa, espansiva, dinamica dell’Italia e per non soccombere alla loro proliferazione bisogna essere capaci di mobilitare altrettante energie, ma sane, forti, mirate al bene comune. Idee che uniscano la morale al business, le idee nuove ai talenti.

Ho ricevuto l’invito a parlare con i futuri amministratori del Pd, così come l’invito dell’on del Pdl Granata ad andare a parlare a Palermo con i giovani del suo partito. Credo sia necessario il confronto con tutti e non permettere strumentalizzazioni. Le organizzazioni criminali amano la politica quando questa è tutta identica e pronta a farsi comprare. Quando la politica si accontenta di razzolare nell’esistente e rinuncia a farsi progetto e guida. Vogliono che si consideri l’ambito politico uno spazio vuoto e insignificante, buono solo per ricavarne qualche vantaggio. E a loro come a tutti quelli che usano la politica per fini personali, fa comodo che questa visione venga condivisa dai cittadini, sia pure con tristezza e rassegnazione.

La politica non è il mio mestiere, non mi saprei immaginare come politico, ma è come narratore che osserva le dinamiche della realtà che ho creduto giusto non sottrarmi a una richiesta di dialogo su come affrontare il problema dell’illegalità e della criminalità organizzata. Il centrosinistra si è creduto per troppo tempo immune dalla collusione quando spesso è stato utilizzato e cooptato in modo massiccio dal sistema criminale o di malaffare puro e semplice, specie in Campania e in Calabria. Ma nemmeno gli elettori del centrodestra sono felici di sapere i loro rappresentanti collusi con le imprese criminali o impegnati in altri modi a ricavare vantaggi personali. Non penso nemmeno che la parte maggiore creda davvero che sia in atto un complotto della magistratura. Si può essere elettori di centrodestra e avere lo stesso desiderio di fare piazza pulita delle collusioni, dei compromessi, di un paese che si regge su conoscenze e raccomandazioni.

Credo che sia giunto il tempo di svegliarsi dai sonni di comodo, dalle pie menzogne raccontate per conforto, così come è tempo massimo di non volersela cavare con qualche pezza, quale piccola epurazione e qualche nome nuovo che corrisponda a un rinnovamento di facciata. Non ne rimane molto, se ce n’è ancora. Per nessuno. Chi si crede salvo, perché oggi la sua parte non è stata toccata dalla bufera, non fa che illudersi. Per quel che bisogna fare, forse non bastano nemmeno i politici, neppure (laddove esistessero) i migliori. In una fase di crisi come quella in cui ci troviamo, diviene compito di tutti esigere e promuovere un cambiamento.

Svegliarsi. Assumersi le proprie responsabilità. Fare pressione. È compito dei cittadini, degli elettori. Ognuno secondo la sua idea politica, ma secondo una richiesta sola: che si cominci a fare sul serio, già da domani.

«Ringrazio chi in questi giorni ha sentito che il mio dolore era anche il suo dolore»

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di Roberto Saviano

GRAZIE per tutto quanto state facendo. È difficile dimostrare quanto sia importante per me quello che è successo in questi giorni. Quanto mi abbia colpito e rincuorato, commosso e sbalordito sino a lasciarmi quasi senza parole. Non avrei mai immaginato che potesse accadere niente di simile, mai mi sarei sognato una tale reazione a catena di affetto e solidarietà.
Grazie al Presidente della Repubblica, che, come già in passato, mi ha espresso una vicinanza in cui non ho sentito solo l’appoggio della più alta carica di questo paese, ma la sincera partecipazione di un uomo che viene dalla mia terra.

Grazie al presidente del Consiglio e a quei ministri che hanno voluto dimostrarmi la loro solidarietà sottolineando che la mia lotta non dev’essere vista disgiunta dall’operato delle forze che rappresentano lo Stato e anche dall’impegno di tutti coloro che hanno il coraggio di non piegarsi al predominio della criminalità organizzata. Grazie allo sforzo intensificato nel territorio del clan dei Casalesi, con la speranza che si vada avanti sino a quando i due latitanti Michele Zagaria e Antonio Iovine – i boss-manager che investono a Roma come a Parma e Milano – possano essere finalmente arrestati.

Grazie all’opposizione e ai ministri ombra che hanno appoggiato il mio impegno e quanto il governo ha fatto per la mia sicurezza. Scorgendo nella mia lotta una lotta al di là di ogni parte.

Le letture delle mie parole che sono state fatte in questi giorni nelle piazze mi hanno fatto un piacere immenso. Come avrei voluto essere lì, in ogni piazza, ad ascoltare. A vedere ogni viso. A ringraziare ogni persona, a dirgli quanto era importante per me il suo gesto.

Perché ora quelle parole non sono più le mie parole. Hanno smesso di avere un autore, sono divenute la voce di tutti. Un grande, infinito coro che risuona da ogni parte d’Italia. Un libro che ha smesso di essere fatto di carta e di simboli stampati nero su bianco ed è divenuto voce e carne. Grazie a chi ha sentito che il mio dolore era il suo dolore e ha provato a immaginare i morsi della solitudine.

Grazie a tutti coloro che hanno ricordato le persone che vivono nella mia stessa condizione rendendole così un po’ meno sole, un po’ meno invisibili e dimenticate.
Grazie a tutti coloro che mi hanno difeso dalle accuse di aver offeso e diffamato la mia terra e a tutti coloro che mi hanno offerto una casa non facendomi sentire come uno che si è messo nei guai da solo e ora è giusto che si arrangi.

Grazie a chi mi ha difeso dall’accusa di essere un fenomeno mediatico, mostrando che i media possono essere utilizzati come strumento per mutare la consapevolezza delle persone e non solo per intrattenere telespettatori.

Grazie alle trasmissioni televisive che hanno dato spazio alla mia vicenda, che hanno fatto luce su quel che accade, grazie ai telegiornali che hanno seguito momento per momento mutando spesso la scaletta solita dando attenzione a storie prima ignorate.

Grazie alle radio che hanno aperto i loro microfoni a dibattiti e commenti, grazie specialmente a Fahrenheit (Radio 3) che ha organizzato una maratona di letture di Gomorra in cui si sono alternati personaggi della cultura, dell’informazione, dello spettacolo e della società civile. Voci che si suturano ad altre voci.

Grazie a chi, in questi giorni, dai quotidiani, alle agenzie stampa, alle testate online, ai blog, ha diffuso notizie e dato spazio a riflessioni e approfondimenti.
Da questo Sud spesso dimenticato si può vedere meglio che altrove quanto i media possano avere talora un ruolo davvero determinante. Grazie per aver permesso, nonostante il solito cinismo degli scettici, che si formasse una nuova sensibilità verso tematiche per troppo tempo relegate ai margini. Perché raccontare significa resistere e resistere significa preparare le condizioni per un cambiamento.

Grazie ai social network Facebook e Myspace, da cui ho ricevuto migliaia di messaggi e gesti di vicinanza, che hanno creato una comunity dove la virtualità era il preludio più immediato per le iniziative poi organizzate in piazza da persone in carne e ossa.

Grazie ai professori delle scuole che hanno parlato con i ragazzi, grazie a tutti coloro che hanno fatto leggere e commentare brani del mio libro in classe. Grazie alle scuole che hanno sentito queste storie le loro storie.
Grazie a tutte le città che mi hanno offerto la cittadinanza onoraria, a queste chiedo di avere altrettanta attenzione a chi concedono gli appalti e a non considerare estranei i loro imprenditori e i loro affari dagli intrecci della criminalità organizzata.

E grazie al mio quotidiano e ai premi Nobel e ai colleghi scrittori di tante nazionalità che hanno scritto e firmato un appello in mio appoggio, scorgendo nella vicenda che mi ha riguardato qualcosa che travalica le problematiche di questo paese e facendomi sentire a pieno titolo un cittadino del mondo.

Eppure Cesare Pavese scrive che "un paese ci vuole, non fosse che per il gusto di andarsene via. Un paese vuol dire non essere soli, sapere che nella gente, nelle piante, nella terra c’è qualcosa di tuo, che anche quando non ci sei resta ad aspettarti".

Io spesso in questi anni ho pensato che la cosa più dura era che nessuno fosse lì ad aspettarmi. Ora so, grazie alle firme di migliaia di cittadini, che non è più così, che qualcosa di mio è diventato qualcosa di nostro.
E che paese non è più – dopo questa esperienza – un’entità geografica, ma che il mio paese è quell’insieme di donne e uomini che hanno deciso di resistere, di mutare e di partecipare, ciascuno facendo bene le cose che sa fare. Grazie.

Se perde Saviano, perderemo tutti

I clan della camorra di Casal di Principe potrebbero aver preparato un piano per assassinare l’autore del libro ‘Gomorra’ e la sua scorta. A rivelarlo un pentito dei casalesi, Carmine Schiavone che nelle ultime ore sembra aver ritrattato tutto.

Saviano: io, prigioniero di Gomorra lascio l’Italia per riavere una vita

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di Giuseppe D’Avanzo

La denuncia di Saviano: “circondato dall’odio per le mie parole. Vado via perché voglio scrivere ed ho bisogno di stare nella realtà”.

"Andrò via dall’Italia, almeno per un periodo e poi si vedrà…", dice Roberto Saviano.
"Penso di aver diritto a una pausa. Ho pensato, in questo tempo, che cedere alla tentazione di indietreggiare non fosse una gran buona idea, non fosse soprattutto intelligente. Ho creduto che fosse assai stupido – oltre che indecente – rinunciare a se stessi, lasciarsi piegare da uomini di niente, gente che disprezzi per quel che pensa, per come agisce, per come vive, per quel che è nella più intima delle fibre ma, in questo momento, non vedo alcuna ragione per ostinarmi a vivere in questo modo, come prigioniero di me stesso, del mio libro, del mio successo. ‘Fanculo il successo. Voglio una vita, ecco. Voglio una casa. Voglio innamorarmi, bere una birra in pubblico, andare in libreria e scegliermi un libro leggendo la quarta di copertina. Voglio passeggiare, prendere il sole, camminare sotto la pioggia, incontrare senza paura e senza spaventarla mia madre. Voglio avere intorno i miei amici e poter ridere e non dover parlare di me, sempre di me come se fossi un malato terminale e loro fossero alle prese con una visita noiosa eppure inevitabile. Cazzo, ho soltanto ventotto anni! E voglio ancora scrivere, scrivere, scrivere perché è quella la mia passione e la mia resistenza e io, per scrivere, ho bisogno di affondare le mani nella realtà, strofinarmela addosso, sentirne l’odore e il sudore e non vivere, come sterilizzato in una camera iperbarica, dentro una caserma dei carabinieri – oggi qui, domani lontano duecento chilometri – spostato come un pacco senza sapere che cosa è successo o può succedere. In uno stato di smarrimento e precarietà perenni che mi impedisce di pensare, di riflettere, di concentrarmi, quale che sia la cosa da fare. A volte mi sorprendo a pensare queste parole: rivoglio indietro la mia vita. Me le ripeto una a una, silenziosamente, tra me".

La verità, la sola oscena verità che, in ore come queste, appare con tragica evidenza è che Roberto Saviano è un uomo solo. Non so se sia giusto dirlo già un uomo immaginando o pretendendo di rintracciare nella sua personalità, nella sua fermezza d’animo, nella sua stessa fisicità la potenza sorprendente e matura del suo romanzo, Gomorra. Roberto è ancora un ragazzo, a vederlo. Ha un corpo minuto, occhi sempre in movimento. Sa essere, nello stesso tempo, malizioso e insicuro, timidissimo e scaltro. La sua è ancora una rincorsa verso se stesso e lungo questo sentiero è stato catturato da uno straordinario successo, da un’imprevedibile popolarità, dall’odio assoluto e assassino di una mafia, dal rancore dei quietisti e dei pavidi, dall’invidia di molti. Saranno forse queste le ragioni che spiegano come nel suo volto oggi coabitino, alternandosi fraternamente, le rughe della diffidenza e le ombre della giovanile fiducia di chi sa che la gioia – e non il dolore – accresce la vita di un uomo.

"Sai, questa bolla di solitudine inespugnabile che mi stringe fa di me un uomo peggiore. Nessuno ci pensa e nemmeno io fino all’anno scorso ci ho mai pensato. In privato sono diventato una persona non bella: sospettoso, guardingo. Sì, diffidente al di là di ogni ragionevolezza. Mi capita di pensare che ognuno voglia rubarmi qualcosa, in ogni caso raggirarmi, "usarmi". E’ come se la mia umanità si fosse impoverita, si stesse immeschinendo. Come se prevalesse con costanza un lato oscuro di me stesso. Non è piacevole accorgersene e soprattutto io non sono così, non voglio essere così. Fino a un anno fa potevo ancora chiudere gli occhi, fingere di non sapere. Avevo la legittima ambizione, credo, di aver scritto qualcosa che mi sembrava stesse cambiando le cose. Quella mutazione lenta, quell’attenzione che mai era stata riservata alle tragedie di quella terra, quell’energia sociale che – come un’esplosione, come un sisma – ha imposto all’agenda dei media di occuparsi della mafia dei Casalesi, mi obbligava ad avere coraggio, a espormi, a stare in prima fila. E’ la mia forma di resistenza, pensavo. Ogni cosa passava in secondo piano, diventava di serie B per me. Incontravo i grandi della letteratura e della politica, dicevo quello che dovevo e potevo dire. Non mi guardavo mai indietro. Non mi accorgevo di quel che ogni giorno andavo perdendo di me. Oggi, se mi guardo alle spalle, vedo macerie e un tempo irrimediabilmente perduto che non posso più afferrare ma ricostruire soltanto se non vivrò più, come faccio ora, come un latitante in fuga. In cattività, guardato a vista dai carabinieri, rinchiuso in una cella, deve vivere Sandokan, Francesco Schiavone, il boss dei Casalesi. Se lo è meritato per la violenza, i veleni e la morte con cui ha innaffiato la Campania, ma qual è il mio delitto? Perché io devo vivere come un recluso, un lebbroso, nascosto alla vita, al mondo, agli uomini? Qual è la mia malattia, la mia infezione? Qual è la mia colpa? Ho voluto soltanto raccontare una storia, la storia della mia gente, della mia terra, le storie della sua umiliazione. Ero soddisfatto per averlo fatto e pensavo di aver meritato quella piccola felicità che ti regala la virtù sociale di essere approvato dai tuoi simili, dalla tua gente. Sono stato un ingenuo. Nemmeno una casa, vogliono affittarmi a Napoli. Appena sanno chi sarà il nuovo inquilino si presentano con la faccia insincera e un sorriso di traverso che assomiglia al disprezzo più che alla paura: sono dispiaciuti assai, ma non possono…. I miei amici, i miei amici veri, quando li ho finalmente rivisti dopo tante fughe e troppe assenze, che non potevo spiegare, mi hanno detto: ora basta, non ne possiamo più di difendere te e il tuo maledetto libro, non possiamo essere in guerra con il mondo per colpa tua? Colpa, quale colpa? E’ una colpa aver voluto raccontare la loro vita, la mia vita?".

Piacciono poco, da noi, i martiri. Morti e sepolti, li si può ancora, periodicamente, sopportare. Vivi, diventano antipatici. Molto antipatici. Roberto Saviano è molto antipatico a troppi. Può capitare di essere infastiditi dalla sua faccia in giro sulle prime pagine. Può capitare che ci si sorprenda a pensare a lui non come a una persona inseguita da una concreta minaccia di morte, a un ragazzo precipitato in un destino, ma come a una personalità che sa gestire con sapienza la sua immagine e fortuna. Capita anche in queste ore, qui e lì. E’ poca, inutile cosa però chiedersi se la minaccia di oggi contro Roberto Saviano sia attendibile o quanto attendibile, più attendibile della penultima e quanto di più? O chiedersi se davvero quel Giuseppe Setola lo voglia disintegrare, prima di Natale, con il tritolo lungo l’autostrada Napoli-Roma o se gli assassini si siano già procurati, come dice uno di loro, l’esplosivo e i detonatori. O interrogarsi se la confidenza giunta alle orecchie delle polizie sia certa o soltanto probabile.
E’ poca e inutile cosa, dico, perché, se i Casalesi ne avranno la possibilità, uccideranno Roberto Saviano. Dovesse essere l’ultimo sangue che versano. Sono ridotti a mal partito, stressati, accerchiati, incalzati, impoveriti e devono dimostrare l’inesorabilità del loro dominio. Devono poter provare alla comunità criminale e, nei loro territori, ai "sudditi" che nessuno li può sfidare impunemente senza mettere nel conto che alla sfida seguirà la morte, come il giorno segue la notte.

“Lo sento addosso come un cattivo odore l’odio che mi circonda. Non è necessario che ascolti le loro intercettazioni e confessioni o legga sulle mura di Casale di Principe: "Saviano è un uomo di merda". Nessuno da quelle parti pensa che io abbia fatto soltanto il mio dovere, quello che pensavo fosse il mio dovere. Non mi riconoscono nemmeno l’onore delle armi che solitamente offrono ai poliziotti che li arrestano o ai giudici che li condannano. E questo mi fa incazzare. Il discredito che mi lanciano contro è di altra natura. Non dicono: "Saviano è un ricchione". No, dicono, si è arricchito. Quell’infame ci ha messo sulla bocca degli italiani, nel fuoco del governo e addirittura dell’esercito, ci ha messo davanti a queste fottute telecamere per soldi. Vuole soltanto diventare ricco: ecco perché quell’infame ha scritto il libro. E quest’argomento mette insieme la parte sana e quella malata di Casale. Mi mette contro anche i miei amici che mi dicono: bella vita la tua, hai fatto i soldi e noi invece tiriamo avanti con cinquecento euro al mese e poi dovremmo difenderti da chi ti odia e ti vuole morto? E perché, diccene la ragione? Prima ero ferito da questa follia, ora non più. Non mi sorprende più nulla. Mi sembra di aver capito che scaricando su di me tutti i veleni distruttivi, l’intera comunità può liberarsi della malattia che l’affligge, può continuare a pensare che quel male non ci sia o sia trascurabile; che tutto sommato sia sopportabile a confronto delle disgrazie provocate dal mio lavoro. Diventare il capro espiatorio dell’inciviltà e dell’impotenza dei Casalesi e di molti italiani del Mezzogiorno mi rende più obiettivo, più lucido da qualche tempo. Sono solo uno scrittore, mi dico, e ho usato soltanto le parole. Loro, di questo, hanno paura: delle parole. Non è meraviglioso? Le parole sono sufficienti a disarmarli, a sconfiggerli, a vederli in ginocchio. E allora ben vengano le parole e che siano tante. Sia benedetto il mercato, se chiede altre parole, altri racconti, altre rappresentazioni dei Casalesi e delle mafie. Ogni nuovo libro che si pubblica e si vende sarà per loro una sconfitta. E’ il peso delle parole che ha messo in movimento le coscienze, la pubblica opinione, l’informazione. Negli anni novanta, la strage di immigrati a Pescopagano – ne ammazzarono cinque – finì in un titolo a una colonna nelle cronache nazionali dei giornali. Oggi, la strage dei ghanesi di Castelvolturno ha costretto il governo a un impegno paragonabile soltanto alla risposta a Cosa Nostra dopo le stragi di Capaci e di via D’Amelio. Non pensavo che potessimo giungere a questo. Non pensavo che un libro – soltanto un libro – potesse provocare questo terremoto. Subito dopo però penso che io devo rispettare, come rispetto me stesso, questa magia delle parole. Devo assecondarla, coltivarla, meritarmela questa forza. Perché è la mia vita. Perché credo che, soltanto scrivendo, la mia vita sia degna di essere vissuta. Ho sentito, per molto tempo, come un obbligo morale diventare un simbolo, accettare di essere al proscenio anche al di là della mia voglia. L’ho fatto e non ne sono pentito. Ho rifiutato due anni fa, come pure mi consigliavano, di andarmene a vivere a New York. Avrei potuto scrivere di altro, come ho intenzione di fare. Sono restato, ma per quanto tempo dovrò portare questa croce? Forse se avessi una famiglia, se avessi dei figli – come li hanno i miei "angeli custodi", ognuno di loro non ne ha meno di tre – avrei un altro equilibrio. Avrei un casa dove tornare, un affetto da difendere, una nostalgia. Non è così. Io ho soltanto le parole, oggi, a cui provvedere, di cui occuparmi. E voglio farlo, devo farlo. Come devo – lo so – ricostruire la mia vita lontano dalle ombre. Anche se non ho il coraggio di dirlo, ai carabinieri di Napoli che mi proteggono come un figlio, agli uomini che da anni si occupano della mia sicurezza. Non ho il cuore di dirglielo. Sai, nessuno di loro ha chiesto di andar via dopo quest’ultimo allarme, e questa loro ostinazione mi commuove. Mi hanno solo detto: "Robe’, tranquillo, ché non ci faremo fottere da quelli là".

A chi appartiene la vita di Roberto? Soltanto a lui che può perderla? Il destino di Saviano – quale saranno da oggi i suoi giorni, quale sarà il luogo dove sceglierà, "per il momento", di scrivere per noi le sue parole necessarie – sono sempre di più un affare della democrazia italiana.
La sua vita disarmata – o armata soltanto di parole – è caduta in un’area d’indistinzione dove sembra non esserci alcuna tradizionale differenza tra la guerra e la pace, se la mafia può dichiarare guerra allo Stato e lo Stato per troppo tempo non ha saputo né cancellare quella violenza sugli uomini e le cose né ripristinare diritti essenziali. A cominciare dal più originario dei diritti democratici: il diritto alla parola. Se perde Saviano, perderemo irrimediabilmente tutti.

Lettera alla mia terra

"Davvero pensate che nulla di ciò che accade dipenda dal vostro impegno?"

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Pensiamo che il grido d’accusa di Roberto Saviano dopo la strage di Castelvolturno, riguardi ognuno di noi, ogni giorno, in ogni territorio di questo nostro paese e in ogni azione del nostro vivere quotidiano.

di Roberto Saviano

I responsabili hanno dei nomi. Hanno dei volti. Hanno persino un’anima. O forse no. Giuseppe Setola, Alessandro Cirillo, Oreste Spagnuolo, Giovanni Letizia, Emilio di Caterino, Pietro Vargas stanno portando avanti una strategia militare violentissima. Sono autorizzati dal boss latitante Michele Zagaria e si nascondono intorno a Lago Patria. Tra di loro si sentiranno combattenti solitari, guerrieri che cercano di farla pagare a tutti, ultimi vendicatori di una delle più sventurate e feroci terre d’Europa. Se la racconteranno così. Ma Giuseppe Setola, Alessandro Cirillo, Oreste Spagnuolo, Giovanni Letizia, Emilio di Caterino e Pasquale Vargas sono vigliacchi, in realtà: assassini senza alcun tipo di abilità militare. Per ammazzare svuotano caricatori all’impazzata, per caricarsi si strafanno di cocaina e si gonfiano di Fernet Branca e vodka. Sparano a persone disarmate, colte all’improvviso o prese alle spalle. Non si sono mai confrontati con altri uomini armati. Dinnanzi a questi tremerebbero, e invece si sentono forti e sicuri uccidendo inermi, spesso anziani o ragazzi giovani. Ingannandoli e prendendoli alle spalle

E io mi chiedo: nella vostra terra, nella nostra terra sono ormai mesi e mesi che un manipolo di killer si aggira indisturbato massacrando soprattutto persone innocenti. Cinque, sei persone, sempre le stesse. Com’è possibile? Mi chiedo: ma questa terra come si vede, come si rappresenta a se stessa, come si immagina? Come ve la immaginate voi la vostra terra, il vostro paese? Come vi sentite quando andate al lavoro, passeggiate, fate l’amore? Vi ponete il problema, o vi basta dire, "così è sempre stato e sempre sarà così? Davvero vi basta credere che nulla di ciò che accade dipende dal vostro impegno o dalla vostra indignazione? Che in fondo tutti hanno di che campare e quindi tanto vale vivere la propria vita quotidiana e nient’altro. Vi bastano queste risposte per farvi andare avanti? Vi basta dire "non faccio niente di male, sono una persona onesta" per farvi sentire innocenti? Lasciarvi passare le notizie sulla pelle e sull’anima. Tanto è sempre stato così, o no? O delegare ad associazioni, chiesa, militanti, giornalisti e altri il compito di denunciare vi rende tranquilli? Di una tranquillità che vi fa andare a letto magari non felici ma in pace? Vi basta veramente?

In qualsiasi altro paese la libertà d’azione di un simile branco di assassini avrebbe generato dibattiti, scontri politici, riflessioni. Invece qui si tratta solo di crimini connaturati a un territorio considerato una delle province del buco del culo d’Italia.

Questo gruppo di fuoco ha ucciso soprattutto innocenti. In qualsiasi altro paese la libertà d’azione di un simile branco di assassini avrebbe generato dibattiti, scontri politici, riflessioni. Invece qui si tratta solo di crimini connaturati a un territorio considerato una delle province del buco del culo d’Italia. E quindi gli inquirenti, i carabinieri e poliziotti, i quattro cronisti che seguono le vicende, restano soli. Neanche chi nel resto del paese legge un giornale, sa che questi killer usano sempre la stessa strategia: si fingono poliziotti. Hanno lampeggiante e paletta, dicono di essere della DIA o di dover fare un controllo di documenti. Ricorrono a un trucco da due soldi per ammazzare con più facilità. E vivono come bestie: tra masserie di bufale, case di periferia, garage.

Hanno ucciso sedici persone. La mattanza comincia il 2 maggio verso le sei del mattino in una masseria di bufale a Cancello Arnone. Ammazzano il padre del pentito Domenico Bidognetti, cugino ed ex fedelissimo di Cicciotto e’ mezzanotte. Umberto Bidognetti aveva 69 anni e in genere era accompagnato pure dal figlio di Mimì che giusto quella mattina non era riuscito a tirarsi su dal letto per aiutare il nonno. Il 15 maggio uccidono a Baia Verde, frazione di Castelvolturno, il sessantacinquenne Domenico Noviello, titolare di una scuola guida. Domenico Noviello era un uomo che si era opposto al racket otto anni prima. Era stato sotto scorta, ma poi il ciclo di protezione era finito. Noviello non sapeva di essere nel mirino, non se l’aspettava. Gli scaricano addosso 20 colpi mentre con la sua Panda stava andando a fare una sosta al bar prima di aprire l’autoscuola. La sua esecuzione era anche un messaggio alla Polizia che stava per celebrare la sua festa proprio a Casal di Principe tre giorni dopo e ancor più una chiara dichiarazione: può passare quasi un decennio ma i Casalesi non dimeticano. Prima ancora, il 13 maggio, distruggono con un incendio la fabbrica di materassi di Pietro Russo a Santa Maria Capua Vetere. E’ l’unico dei loro bersagli ad avere una scorta. Perché è stato l’unico che, con Tano Grasso, tentò di organizzare un fronte contro il racket in terra casalese. Poi, il 30 maggio, a Villaricca colpiscono alla pancia Francesca Carrino, una ragazza, venticinque anni, nipote di Anna Carrino, la ex compagna di Francesco Bidognetti, pentita. Era in casa con la madre e con la nonna, ma era stata lei ad aprire la porta ai killer che si spacciavano per agenti della DIA. Non passa nemmeno un giorno che a Casal di Principe, mentre dopo pranzo sta per andare al "Roxy bar" uccidono Michele Orsi, imprenditore dei rifiuti vicino al clan che, arrestato l’anno prima, aveva cominciato a collaborare con la magistratura svelando gli intrighi rifiuti-politica-camorra. E’ un omicidio eccellente che fa clamore, solleva polemiche, fa alzare la voce ai rappresentanti dello Stato. Ma non fa fermare i killer. L’11 luglio uccidono al Lido "La Fiorente" di Varcaturo Raffaele Granata, 70 anni, gestore dello stabilimento balneare e padre del sindaco di Calvizzano. Anche lui paga per non aver anni prima ceduto alle volontà del clan. Il 4 agosto massacrano a Castelvolturno Ziber Dani e Arthur Kazani che stavano seduti ai tavoli all’aperto del "Bar Kubana" e, probabilmente, il 21 agosto Ramis Doda, venticinque anni, davanti al "Bar Freedom" di San Marcellino. Le vittime sono albanesi che arrotondavano con lo spaccio, ma avevano il permesso di soggiorno e lavoravano nei cantieri come muratori e imbianchini. Poi il 18 agosto aprono un fuoco indiscriminato contro la villetta di Teddy Egonwman, presidente dei nigeriani in Campania che si batte da anni contro la prostituzione delle sue connazionali, ferendo gravemente lui, sua moglie Alice e altri tre amici. Tornano a San Marcellino il 12 settembre per uccidere Antonio Ciardullo ed Ernesto Fabozzi, massacrati mentre stavano facendo manutenzione ai camion della ditta di trasporti di cui il primo era titolare. Anche lui non aveva obbedito, e chi gli era accanto è stato ucciso perché testimone. E infine, il 18 settembre, trivellano prima Antonio Celiento, titolare di una sala giochi a Baia Verde e un quarto d’ora dopo, aprono un fuoco di 130 proiettili di pistole e kalashnikov contro gli africani riuniti dentro e davanti la sartoria "Ob Ob Exotic Fashion" di Castelvolturno. Muoiono Samuel Kwaku, 26 anni e Alaj Ababa, del Togo; Cristopher Adams e Alex Geemes, 28 anni, liberiani; Kwame Yulius Francis, 31 anni e Eric Yeboah, 25, ghanesi, mentre viene ricoverato con ferite gravi Joseph Ayimbora, 34 anni, anche lui del Ghana. Solo uno o due di loro avevano forse a che fare con la droga, gli altri ragazzi erano lì per caso, lavoravano duro nei cantieri o dove capitava, e pure nella sartoria.

Sedici vittime in meno di sei mesi. Qualsiasi paese democratico con una situazione del genere avrebbe vacillato. Qui da noi, nonostante tutto, neanche se n’è parlato.

Sedici vittime in meno di sei mesi. Qualsiasi paese democratico con una situazione del genere avrebbe vacillato. Qui da noi, nonostante tutto, neanche se n’è parlato. Neanche si era a conoscenza da Roma in su di questa scia di sangue e questo terrorismo, che non parla arabo, che non ha stelle a cinque punte, ma comanda e domina senza contrasto. Ammazzano chiunque si oppone. Ammazzano chiunque capiti sotto tiro, senza riguardi per nessuno. La lista dei morti potrebbe essere più lunga, molto più lunga. E per tutti questi mesi nessuno ha informato l’opinione pubblica che girava questa "paranza di fuoco". Paranza, come le barche che escono a pescare insieme in alto mare. Nessuno ne ha rivelato i nomi sino a quando non hanno fatto strage a Castelvolturno. Ma sono sempre gli stessi, usano sempre le stesse armi, anche se cercano di modificarle per trarre in inganno la scientifica, segno che ne dispongono di poche. Non entrano in contatto con le famiglie, stanno rigorosamente fra di loro. Ogni tanto qualcuno li intravede nei bar di qualche paesone, dove si fermano per riempirsi d’alcol. E da sei mesi nessuno riesce ad acciuffarli.
Castelvolturno, territorio dove sono avvenuti la maggior parte dei delitti, non è un luogo qualsiasi. Non è un quartiere degradato, un ghetto per reietti e sfruttati come se ne possono trovare anche altrove, anche se ormai certe sue zone somigliano più alle home town dell’africa che al luogo di turismo balneare per il quale erano state costruite le sue villette. Castelvolturno è il luogo dove i Coppola edificarono la più grande cittadella abusiva del mondo, il celebre Villaggio Coppola.

Castelvolturno è il luogo dove i Coppola edificarono la più grande cittadella abusiva del mondo, il celebre Villaggio Coppola. Ottocentosessantatremila metri quadrati occupati col cemento. Che abusivamente presero il posto di una delle più grandi pinete marittime del mediterraneo.

Ottocentosessantatremila metri quadrati occupati col cemento. Che abusivamente presero il posto di una delle più grandi pinete marittime del mediterraneo. Abusivo l’ospedale, abusiva la caserma dei carabinieri, abusive le poste. Tutto abusivo. Ci andarono ad abitare le famiglie dei soldati della NATO. Quando se ne andarono, il territorio cadde nell’abbandono più totale e divenne tutto feudo di Francesco Bidognetti e al tempo stesso territorio della mafia nigeriana. I nigeriani hanno una mafia potente con la quale ai Casalesi conveniva allearsi, il loro paese è diventato uno snodo nel traffico internazionale di cocaina e le organizzazioni nigeriane sono potentissime capace di investire soprattutto nei Money Transfer, i punti attraverso i quali tutti gli immigrati del mondo inviano i soldi a casa. Attraverso questi i nigeriani controllano soldi e persone.

Da Castelvolturno transita la coca africana diretta soprattutto in Inghilterra. Le tasse sul traffico che quindi il clan impone non sono soltanto il pizzo sullo spaccio al minuto, ma accordi di una sorta di joint venture. Ora però i nigeriani sono potenti, potentissimi. Così come lo è la mafia albanese, con la quale i Casalesi sono in affari. E il clan si sta slabbrando, teme di non essere più riconosciuto come chi comanda per primo e per ultimo sul territorio. Ed ecco che nei vuoti si insinuano gli uomini della paranza. Uccidono dei pesci piccoli albanesi come azione dimostrativa, fanno strage di africani di cui nessuno viene dalla Nigeria, colpiscono gli ultimi anelli della catena di gerarchie etniche e criminali. Muoiono ragazzi onesti, ma come sempre in questa terra, per morire non dev’esserci una ragione. E basta poco per essere diffamati. I ragazzi africani uccisi erano immediatamente tutti "trafficanti" come furono "camorristi" Giuseppe Rovescio e Vincenzo Natale, ammazzati a Villa Literno il 23 settembre 2003 perché erano fermi a prendere una birra vicinio a Francesco Galoppo, affiliato del clan Bidognetti. Anche loro furono subito battezzati come criminali.
Non è la prima volta che si compie da quelle parti una mattanza di immigrati. Nel 1990 Augusto La Torre, boss di Mondragone, partì con i suoi fedelissimi alla volta di un bar che pur gestito da italiani, era diventato un punto di incontro per lo spaccio degli africani. Tutto avveniva sempre lungo la statale Domitiana, a Pescopagano, pochi chilometri a nord di Castelvolturno, però già in territorio mondragonese. Uccisero sei persone, fra cui il gestore, e ne ferirono molte altre. Anche quello era stato il culmine di una serie di azioni contro gli stranieri, ma i Casalesi che pure approvavano le intimidazioni non gradirono la strage. La Torre dovette incassare critiche pesanti da parte di Francesco "Sandokan" Schiavone. Ma ora i tempi sono cambiati e permettono di lasciar esercitare una violenza indiscriminata a un gruppo di cocainomani armati.

Chiedo di nuovo alla mia terra come si immagina. Lo chiedo anche a tutte quelle associazioni di donne e uomini che in grande silenzio qui lavorano e si impegnano. A quei pochi politici che riescono a rimanere credibili, che resistono alle tentazioni della collusione o della rinuncia a combattere il potere dei clan. A tutti coloro che fanno bene il loro lavoro, a tutti coloro che cercano di vivere onestamente, come in qualsiasi altra parte del mondo. A tutte queste persone. Che sono sempre di più, ma sono sempre più sole. Come vi immaginate questa terra. Se è vero, come disse Danilo Dolci, che ciascuno cresce solo se è sognato, voi come ve li sognati questi luoghi? Non c’è stata mai così tanta attenzione rivolta alle vostre terre e quel che vi è avvenuto e vi avviene. Eppure non sembra cambiato molto.

Antonio Iovine e Michele Zagaria. Dodici anni di latitanza. Anche di loro si sa dove sono. Il primo è a San Cipriano d’Aversa, il secondo a Casapesenna. In un territorio grande come un fazzoletto di terra, possibile che non si riesca a scovarli?

I due boss che comandano continuano a comandare e ad essere liberi. Antonio Iovine e Michele Zagaria. Dodici anni di latitanza. Anche di loro si sa dove sono. Il primo è a San Cipriano d’Aversa, il secondo a Casapesenna. In un territorio grande come un fazzoletto di terra, possibile che non si riesca a scovarli? E’ storia antica quella dei latitanti ricercati in tutto il mondo e poi trovati proprio a casa loro. Ma è storia nuova che ormai ne hanno parlato più e più volte giornali e tv, politici di ogni colore hanno promesso che li faranno arrestare, ma intanto il tempo passa e nulla accade. E sono lì. Passeggiano, parlano, incontrano persone.

Ho visto che nella mia terra sono comparse scritte contro di me. Saviano merda. Saviano verme. E un’enorme bara con il mio nome. E poi insulti, continue denigrazioni a partire dalla più ricorrente e banale: "Quello: s’è fatto i soldi". Col mio lavoro di scrittore adesso riesco a vivere e, per fortuna, pagarmi gli avvocati. E loro? Loro che comandano imperi economici e si fanno costruire ville faraoniche in paesi dove non ci sono nemmeno le strade asfaltate? Loro che per lo smaltimento di rifiuti tossici sono riusciti in una sola operazione a incassare sino a 500milioni di euro e hanno imbottito la nostra terra di veleni al punto tale di far lievitare fino al 24% certi tumori, e le malformazioni congenite fino all’84% percento? Soldi veri che generano secondo l’Osservatorio epidemiologico campano una media di 7.172,5 morti per tumore all’anno in Campania. E ad arricchirsi sulle disgrazie di questa terra sarei io con le mie parole o i carabinieri e i magistrati, i cronisti e tutti gli altri che con libri o film o in ogni altro modo continuano a denunciare? Com’è possibile che si crei un tale capovolgimento di prospettive? Com’è possibile che anche persone oneste si uniscano a questo coro? Pur conoscendo la mia terra, di fronte a tutto questo, io rimangono incredulo e sgomento e anche ferito al punto che fatico a trovare la mia voce. Perché il dolore porta ad ammutolire, perché l’ostilità porta a non sapere a chi parlare. E allora a chi devo rivolgermi, che cosa dico?

Come faccio a dire alla mia terra di smettere di essere schiacciata tra l’arroganza dei forti e la codardia dei deboli?

Come faccio a dire alla mia terra di smettere di essere schiacciata tra l’arroganza dei forti e la codardia dei deboli? Oggi qui in questa stanza dove sono, ospite di chi mi protegge, è il mio compleanno. Penso a tutti i compleanni passati così, da quando ho la scorta, un po’ nervoso, un po’ triste, e soprattutto solo. Penso che non potrò mai più passarne uno normale nella mia terra, che non potrò mai più metterci piede. Rimpiango come un malato senza speranze tutti i compleanni trascurati, snobbati perché è solo una data qualsiasi e un altro anno ce ne sarà uno uguale. Ormai si è aperta una voragine nel tempo e nello spazio, una ferita che non potrà mai rimarginarsi. E penso pure e soprattutto a chi vive la mia stessa condizione e non ha come me il privilegio di scriverne e parlare a molti. Penso ad altri amici sotto scorta, Raffaele, Rosaria, Lirio, Tano, penso a Carmelina, la maestra di Mondragone che aveva denunciato il killer di un camorrista e che da allora vive sotto protezione, lontana, sola. Lasciata dal fidanzato che doveva sposare, giudicata dagli amici che si sentono schiacciati dal suo coraggio e dalla loro mediocrità. Perché non c’era stata solidarietà per il suo gesto, anzi, ci sono state critiche e abbandono. Lei ha solo seguito un richiamo della sua coscienza e ha dovuto barcamenarsi con il magro stipendio che le da lo stato. Cos’ha fatto Carmelina, cos’hanno fatto altri come lei per avere la vita distrutta e sradicata, mentre i boss latitanti continuano a poter vivere protetti e rispettati nelle loro terre? E chiedo alla mia terra, che cosa ci rimane. Ditemelo. Galleggiare? Far finta di niente? Calpestare scale di ospedali lavate da cooperative di pulizie loro, ricevere nei serbatoi la benzina spillata da pompe di benzina loro? Vivere in case costruite da loro, bere il caffè della marca imposta da loro (ogni marca di caffè per essere venduta nei bar deve avere l’autorizzazione dei clan), cucinare nelle loro pentole (il clan Tavoletta gestiva produzione e vendita delle marche più prestigiose di pentole)? Mangiare il loro pane, la loro mozzarella, i loro ortaggi? Votare i loro politici che riescono, come dichiarano i pentiti, ad arrivare alle più alte cariche nazionali? Lavorare nei loro centri commerciali, costruiti per creare posti di lavoro e sudditanza dovuta al posto di lavoro, ma intanto non c’è perdita perché gran parte dei negozi sono loro? Siete fieri di vivere nel territorio con i più grandi centri commerciali del mondo e insieme uno dei più alti tassi di povertà? Passare il tempo nei locali gestiti o autorizzati da loro? Sedersi al bar vicino ai loro figli, i figli dei loro avvocati, dei loro colletti bianchi? E trovarli simpatici e innocenti, tutto sommato persone gradevoli, perché loro in fondo sono solo ragazzi, che colpa hanno dei loro padri.

Non si tratta di stabilire colpe, ma smettere di accettare e di subire sempre, smettere di pensare che almeno c’è ordine, che almeno c’è lavoro, e che basta non grattare, non alzare il velo, continuare ad andare avanti per la propria strada.

E infatti non si tratta di stabilire colpe, ma smettere di accettare e di subire sempre, smettere di pensare che almeno c’è ordine, che almeno c’è lavoro, e che basta non grattare, non alzare il velo, continuare ad andare avanti per la propria strada. Che basta fare questo e nella nostra terra si è già nel migliore dei mondi possibili, o magari no, ma nell’unico mondo possibile sicuramente. Quanto ancora dobbiamo aspettare? Quanto ancora dobbiamo vedere i migliori emigrare e i rassegnati rimanere? Siete davvero sicuri che vada bene così? Che le serate che passate a corteggiarvi, a ridere, a litigare, a maledire il puzzo dei rifiuti bruciati, a scambiarvi quattro chiacchiere, possano bastare? Voi volete una vita semplice, normale, fatta di piccole cose, mentre intorno a voi c’è una guerra vera, mentre chi non subisce e denuncia e parla, perde ogni cosa. Come abbiamo fatto a divenire così ciechi? Così asserviti e rassegnati, così piegati?

Come è possibile che solo gli ultimi degli ultimi, gli africani che subiscono lo sfruttamento e la violenza dei clan italiani e di altri africani, abbiano saputo una volta tirare fuori più rabbia che paura e rassegnazione? Non posso credere che un sud così ricco di talenti e forze possa davvero accontentarsi solo di questo. La Calabria ha il PIL più basso d’Italia ma "Cosa Nuova", ossia la ndrangheta fattura quanto e più di una intera manovra finanziaria italiana. Alitalia sarà in crisi, ma a Grazzanise, in un territorio marcio di camorra, si sta per costruire il più grande aeroporto italiano, il più vasto del mediterraneo. Una terra condannata a far circolare enormi capitali senza avere uno straccio di sviluppo vero, e invece ha danaro, profitto, cemento che ha il sapore del saccheggio, non della crescita.
Non posso credere che riescano a resistere soltanto pochi individui eccezionali. Che la denuncia sia ormai solo il compito dei pochi singoli, preti, maestri, medici, i pochi politici onesti e gruppi che interpretano il ruolo della società civile. E il resto? Gli altri se ne stanno buoni e zitti, tramortiti dalla paura? La paura. L’alibi maggiore. Fa sentire tutti a posto perché è in suo nome che si tutelano la famiglia, gli affetti, la propria vita innocente, il proprio sacrosanto diritto a viverla e costruirla. Ma non avere più paura, non sarebbe difficile. Basterebbe agire, ma non da soli. La paura va a braccetto con l’isolamento. Ogni volta che qualcuno si tira indietro, crea altra paura, che crea ancora altra paura, in un crescendo esponenziale che immobilizza, erode, lentamente manda in rovina.

"Si può edificare la felicità del mondo sulle spalle di un unico bambino maltrattato?"

"Si può edificare la felicità del mondo sulle spalle di un unico bambino maltrattato?" domanda Ivan Karamazov a suo fratello Aljoša. Ma voi non volete un mondo perfetto, volete solo una vita tranquilla e semplice, una quotidianità accettabile, il calore di una famiglia. Accontentarvi di questo pensate che vi metta al riparo di ansie e dolori. E forse ci riuscite, riuscite a trovare una dimensione in cui trovate serenità. Ma a che prezzo? Se dovessero nascere malati o ammalarsi i vostri figli, se un’ altra volta dovreste rivolgervi a un politico che in cambio di un voto vi darà un lavoro senza il quale anche i vostri piccoli sogni e progetti finiscono nel vuoto, quando faticherete ad ottenere un mutuo per la vostra casa mentre i direttori delle stesse banche saranno sempre disponibili con chi comanda, quando vedrete tutto questo, forse, vi renderete conto che non c’è riparo, che non esiste nessun ambito protetto, e che l’atteggiamento che pensavate realistico e saggiamente disincantato, vi ha appestato l’anima di un risentimento e rancore che toglie ogni gusto alla vostra vita. Perché se tutto ciò è triste la cosa ancora più triste è l’abitudine. Abituarsi che non ci sia null’altro da fare che rassegnarsi, arrangiarsi o andare via. Chiedo alla mia terra se riesce ancora ad immaginare di poter scegliere. Le chiedo se è in grado di compiere almeno quel primo gesto di libertà che sta nel riuscire a pensarsi diversa, di pensarsi libera. Non rassegnarsi ad accettare come un destino naturale quel che è invece opera degli uomini.
Quegli uomini possono strapparti alla tua terra e al tuo passato, portarti via la serenità, impedirti di trovare una casa, scriverti insulti sulle pareti del tuo paese, possono fare il deserto intorno a te. Ma non possono estirpare quel che resta una certezza e, per questo, rimane pure una speranza. Che non è giusto, non è per niente naturale, far sottostare un territorio al dominio della violenza e dello sfruttamento senza limiti. E che non deve andare avanti così, perché così è sempre stato. Anche perché non è vero che tutto è sempre uguale, ma è sempre peggio. Perché la devastazione cresce proporzionalmente con i loro affari, perché è irreversibile come la terra una volta per tutte appestata, perché non conosce limiti. Perché là fuori si aggirano sei killer abbruttiti e strafatti, con licenza di uccidere e non mandato, che non si fermano di fronte a nessuno. Perché sono loro l’immagine e somiglianza di ciò che regna oggi su queste terre e di quel che le attende domani, dopodomani, nel futuro.
Bisogna trovare la forza di cambiare. Ora, o mai più.

La camorra a mezzo stampa. E Saviano sfida i legali dei boss

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di Francesco Erbani

"Ognuno di voi lettori fa paura". Fa paura ai poteri camorristi che lui racconta. La voce di Roberto Saviano scende sul silenzio della platea del Teatro Sociale di Mantova, pieno fino all’ultimo posto. "Oggi sono 695 giorni che vivo sotto scorta. 11.120 ore. Non prendo treni, non salgo in macchina. Ho il sogno di una casa. Ma a Napoli l’ho cercata in via Luca Giordano, via Solimena, via Cimarosa. Niente. A Posillipo hanno chiesto un appartamento per me i carabinieri. Avevano risposto sì. Quando hanno visto che ero io, hanno detto: l’abbiamo affittata un’ora fa".

Gli accessi del teatro sono controllati, agenti in borghese camminano fra le poltrone, quattro di loro stazionano sul palco. In platea – dice Saviano – anche gli avvocati dei boss che in aula lessero una lettera di minacce allo scrittore, al giudice Raffaele Cantone e a Rosaria Capacchione, giornalista del Mattino.

Le parole di Saviano raccontano la camorra a mezzo stampa, disegnano lo spazio stretto di una narrazione alla quale è impedito il movimento libero e che è costretta a esprimersi in uno stato di limitazione che è l’antitesi del narrare e in fin dei conti della letteratura. Ed è a questo valore simbolico che si sono richiamati gli organizzatori del Festival mantovano chiedendo allo scrittore campano di chiudere la dodicesima edizione. Saviano è arrivato a Mantova con la sua scorta, "la mia falange", lasciando fino all’ultimo in sospeso gli organizzatori che hanno potuto comunicare la sua presenza solo venerdì mattina. Ottocento i biglietti venduti, svaniti nel giro di un’ora. Fuori al teatro si assiepa una folla silenziosa e ordinata.

Saviano, camicia bianca e jeans, racconta come certa stampa locale si sia fatta megafono della camorra, con i suoi titoli e le allusioni, Pochi giorni dopo l’omicidio di don Peppe Diana, Il Corriere di Caserta titola "Don Peppe Diana era un camorrista": sono le parole di un boss, compaiono fra virgolette, ma per il giornale hanno un crisma di verità. Quando viene arrestato, l’assassino del sacerdote, De Falco, viene definito "boss playboy" e segue un pezzo sulle doti amatorie di altri camorristi. Quando è sequestrato il piccolo Tommaso Onofri, il giornale Cronache di Napoli titola: "Tommaso, il dolore dei boss". Qualche giorno dopo viene trovato il corpo di Tommaso. Titolo su Cronache di Napoli: "Tommaso è morto: l’ira dei padrini".

Quando viene catturato un cugino di Francesco Schiavone, il titolo suona: "Cicciariello arrestato con l’amante". Il boss Prestieri viene dipinto come appassionato d’arte. Si racconta la passione di capoclan per la poesia e la narrativa. Un killer vince un premio letterario.

Un altro titolo: "Sandokan a Berlusconi: i pentiti sono contro di noi". "Ma noi chi?", si chiede Saviano. E prova a rispondere. "Io sono un imprenditore, dice di sé Sandokan, e mi rivolgo al numero uno degli imprenditori, perché i pentiti non sono altro che concorrenti sleali".

Le parole dette e scritte, rilanciate dai titoli. I ragazzi di Casal di Principe che recitano, come una cantilena: "Gomorra è pieno di favole, sono solo favole". Dalla carta stampata alla tv. Sullo schermo parte un video. La sorella di uno Schiavone, in un programma Mediaset, senza apparire fa sentire la sua voce a proposito di Saviano: "Ma cosa gli abbiamo fatto noi di Casale, gli abbiamo violentato la fidanzata?". Lo scrittore alza il viso dallo schermo: "Chi di voi dopo queste parole può dire che non è successo niente? Questa notte pensate se qualcuno viene da voi e dice queste parole, domandatevi se la vostra vita d’improvviso non diventa un pericolo per chi vi sta vicino".

Gli avvocati dei boss che in aula hanno letto la lettera dei boss "sono qui in platea", dice Saviano. "Sono contento che vengano tutte le volte che parlo in pubblico. I vostri assistiti fateli venire direttamente, o pensate che io abbia paura? Ce lo diciamo sempre io e i miei ragazzi: noi non facciamo paura perché non abbiamo paura. È la letteratura che li terrorizza. Sono i lettori che fanno paura". La gente applaude in piedi, a lungo. Saviano si siede, le mani sul viso.