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Emergenza sicurezza: bastano le pistole ai vigili?

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di Matteo d’Ingeo – l’altraMolfetta novembre 2009.



“È il discorso sul malessere della città. Un malessere che, in modo spesso maldestro, vogliamo rimuovere dalla nostra coscienza e del quale facciamo fatica a prendere atto, forse perché troppo fieri del prestigio del nostro passato. Un malessere che si costruisce su impercettibili detriti di illegalità diffusa, sugli scarti umani relegati nelle periferie, sui frammenti di una sottocultura della prepotenza non sempre disorganica all’apparato ufficiale.

È il discorso sulla rete sommersa della piccola criminalità che germina all’ombra di un perbenismo di facciata. Sulle connivenze col mondo della droga che ormai non risparmia nessun gonfalone. Sui rigagnoli sporchi che inquinano le falde sane di una economia costruita dalla proverbiale laboriosità dei nostri antenati, i quali hanno onorato Molfetta in tutti gli angoli del mondo…”
 
… “È il discorso sulla ineluttabilità di certi gesti, che sono l’epilogo naturale di una temperie di disagio. Come un fiammifero, acceso sulla caldaia di una miscela esplosiva. Sì, questa è la vera tragedia: che chi ha sparato non è un mostro. Oh, come vorremmo che fosse un mostro, per poter scaricare unicamente sul parossismo della sua barbarie le responsabilità di questo assassinio! Ma chi ha sparato non è un mostro, e neppure un pazzo e forse neppure un criminale nel senso classico del termine. Non è un mostro. E’ un nostro! » un nostro concittadino, che, come ultima miccia, ha dato fuoco alle polveri di cui, almeno un granello, ce lo portiamo tutti nell’anima…
(Omelia per Gianni Carnicella – 9 luglio 1992 – don Tonino Bello)”.
 
Ancora una volta le parole di don Tonino tornano ad essere attuali, e i “nostri”, questa volta, sono due diciottenni. Non hanno sparato con fucili a canne mozze ma hanno spezzato la vita di Giulia Samarelli, una delle nostre tante donne d’altri tempi, vissuta in discreta solitudine, che ha costruito il proprio futuro, giorno dopo giorno, nella consapevolezza di dover gestire la propria dignitosa e laboriosa esistenza senza certezze.
Dall’altra parte due “bulli”, si direbbe. Michele de Bari, figlio del più noto Gino, come altri suoi cugini e zii, arcinoto alla cittadinanza e alle forze dell’ordine.
Pietro Gadaleta, al momento dell’arresto, sembra che abbia dichiarato laconicamente “che era la prima volta” che partecipava ad uno scippo. Rivedendo la padronanza e la freddezza dei suoi gesti nel video, diffuso dai Carabinieri, non si direbbe.
Abbiamo elementi abbastanza concreti per pensare che Gadaleta fosse un “piccolo dottor Jekyll e mister Hyde”.
Dalle foto segnaletiche apparse sui giornali, nonostante il rinnovato look nel taglio di capelli, è stato riconosciuto da alcuni cittadini come quel bravo ragazzo che operava come volontario nell’associazione “MISERICORDIE”, svolgendo assistenza agli anziani bisognosi di cure.
In città, purtroppo, di Michele e Pietro ne girano tanti, dal Borgo Antico a Piazza Paradiso, da via Immacolata ai quartieri periferici e girano in due su motorini senza casco, senza targa e, all’occorrenza, contro marcia.
Paradossalmente questa situazione, a Molfetta, non è straordinaria, non è avvenuta per caso in via Immacolata ma è una storia di ordinaria illegalità quotidiana, in una città dove le regole della civile convivenza vengono infrante senza che nessuno ne rivendichi il rispetto.
In questi giorni il SindacoSenatorePresidente Antonio Azzollini oltre a ripetere lo slogan, ormai usurato e smentito da tutte le finanziarie del suo stesso governo, della solita richiesta dell’aumento dell’organico per la caserma dei Carabinieri, si è inventato una straordinaria novità.
In una conferenza cittadina ha dichiarato che i problemi di ordine pubblico a Molfetta si risolvono con l’armamento degli agenti di polizia municipale.
 
Se il sindaco vuol dire che l’abusivismo e l’occupazione di suolo pubblico, le auto in doppia fila, le infrazioni al codice della strada, le auto incendiate, gli scippi, l’uso dei falsi pass per disabili, ecc, ecc, si combattono con l’armamento  della polizia municipale, allora consigliamo a lui e alla sua maggioranza (sperando che non ci sia anche qualche consigliere di minoranza) di farsi un serio esame di coscienza e poi di dichiararsi non all’altezza del compito.
 
Anzi per volere del primo cittadino la nostra città è diventata una “zona franca”.
 
Sarebbe interessante conoscere dalla viva voce del Sindaco o dalla taciturna assessora alla sicurezza, quali siano i meccanismi sociali, professionali, tecnici, pedagogici o politici che vedrebbero nell’armamento dei vigili urbani la soluzione dei problemi di ordine pubblico della nostra città.
 
Si potrebbe, forse, immaginare questa situazione; il vigile urbano, pardon, l’agente di Polizia Municipale che fino ad oggi non si è mai azzardato a presentarsi, in via Giovinazzo, all’ambulante che in violazione del codice della strada occupa marciapiede e scivolo per portatori di handicap, domani si presenterà con la pistola semiautomatica calibro 7.65 nella fondina, ben in vista, e per miracolo l’ambulante libererà il marciapiede e chiederà scusa per aver occupato abusivamente per ben due anni un bene comune arrecando danno e disagio alla comunità.
 
Ai miracoli non ci crediamo più già da molto tempo e forse il Sindaco dimentica che quando era un “soldato semplice” ha discusso e licenziato da consigliere comunale nell’autunno del 1995 un ”Regolamento di Polizia Municipale” che, probabilmente,  non è stato mai interpretato ed attuato pienamente.
 
Oggi si vuol portare in Consiglio Comunale il vecchio regolamento con l’arricchimento di nuovi articoli che riguardano l’armamento volontario dei nuovi agenti di polizia municipale.
 
Speriamo che il buon senso prevalga su questa irragionevole scelta.
 
Basterebbe che quotidianamente gli agenti di Polizia Municipale attuassero alla lettera il regolamento già esistente senza sconti e favori a chicchessia, e l’arroganza dei soliti noti sicuramente si perderebbe in una città in cui serve solo un po’ di normalità senza rigurgiti di autorità e autoritarismi; purtroppo non è da tutti, ma abbiamo un gran bisogno di “autorevolezza”, non solo nella politica ma anche nella Polizia Municipale.

1992-2009 Una città senza memoria non ha futuro

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di Matteo d’Ingeo
l’Altramolfetta – Luglio 2009

Nell’agosto del 1992 per il trigesimo della morte di Gianni Carnicella, assassinato dal fucile a canne mozze di Cristoforo Brattoli, alcune associazioni, operatori del volontariato e movimenti politici firmarono un manifesto destinato a diventare un vero e proprio appello alla cittadinanza attiva.

Il testo del manifesto riportava queste parole:
“ … L’OMICIDIO DEL SINDACO CARNICELLA segna un livello, finora mai raggiunto, di degrado della convivenza civile nella nostra città. Di fronte a questo episodio il nostro primo atteggiamento è di sdegno e di dolore per la vita spezzata oltre che di piena solidarietà con chi più duramente da esso è stato colpito.
A ciò si unisce, forte, un lacerante bisogno di verità. Verità sull’accaduto ma soprattutto sul clima nel quale è maturato e sui meccanismi che lo hanno generato.
E’ ormai innegabile che a Molfetta siano sempre più evidenti i segnali di una illegalità diffusa, dalla occupazione indebita di strade e piazze al racket delle estorsioni, dalle assunzioni clientelari, al mercato drogato delle abitazioni di nuova costruzione.
E’ altrettanto innegabile che all’interno di vaste fasce di emarginazione e disgregazione sociale la delinquenza e la prevaricazione violenta diventano facile strumento per l’acquisizione di potere e ricchezza.
In questo clima, l’assassinio del Sindaco non è solo il gesto isolato di un folle: è il risvolto sanguinoso di una carriera affaristica cresciuta all’ombra di un sistema politico che usava e si lasciava usare: la collaborazione attiva alle campagne elettorali di noti esponenti politici locali e il monopolio detenuto da ben sette anni sugli appalti per l’organizzazione delle principali manifestazioni pubbliche sono dati di fatto che non si possono dimenticare.
Gianni Carnicella, che pure di quel sistema era parte integrante, ha forse pagato con la vita il tentativo coraggioso di invertire la tendenza. Oggi questo delitto rischia di bloccare il processo che era stato appena avviato. La paura potrebbe prendere il sopravvento.
Non dovrà essere così. Significherebbe consegnare la città e la vita di ognuno di noi al dominio dell’illegalità.
NON E’ PIU’ TEMPO DELL’INDIFFERENZA E DEL DISIMPEGNO NE’ DI RASSEGNAZIONE. MOLFETTA DEVE REAGIRE…”.

Ma il primo appello era stato già pronunciato da don Tonino Bello nella sua omelia del 9 luglio 1992.
“… È il discorso sul malessere della città. Un malessere che, in modo spesso maldestro, vogliamo rimuovere dalla nostra coscienza e del quale facciamo fatica a prendere atto, forse perché troppo fieri del prestigio del nostro passato. Un malessere che si costruisce su impercettibili detriti di illegalità diffusa, sugli scarti umani relegati nelle periferie, sui frammenti di una sottocultura della prepotenza non sempre disorganica all’apparato ufficiale.
È il discorso sulla rete sommersa della piccola criminalità che germina all’ombra di un perbenismo di facciata. Sulle connivenze col mondo della droga che ormai non risparmia nessun gonfalone. Sui rigagnoli sporchi che inquinano le falde sane di una economia costruita dalla proverbiale laboriosità dei nostri antenati, i quali hanno onorato Molfetta in tutti gli angoli del mondo.
… Sì, questa è la vera tragedia: che chi ha sparato non è un mostro. Oh, come vorremmo che fosse un mostro, per poter scaricare unicamente sul parossismo della sua barbarie le responsabilità di questo assassinio! Ma chi ha sparato non è un mostro, e neppure un pazzo e forse neppure un criminale nel senso classico del termine. Non è un mostro. E’  un nostro!  Un nostro concittadino, che, come ultima miccia, ha dato fuoco alle polveri di cui, almeno un granello, ce lo portiamo tutti nell’anima… . Ecco perché a Gianni voglio chiedere perdono anch’io, vescovo di questa città, responsabile di una Chiesa forse un po’ troppo attardata in una pastorale di contenimento e di conservazione, che stenta a uscire dai perimetri rassicuranti delle sagrestie per compromettersi con gli ultimi, ritrovando audaci cadenze missionarie, ed è ancora ben lontana dall’essere «testimonianza viva di verità e di libertà, di giustizia e di pace, perché tutti gli uomini si aprano alla speranza di un mondo nuovo»

A distanza di diciassette anni le parole di don Tonino e l’appello dei movimenti sono purtroppo ancora attuali, lo scenario sociale degradato di quegli anni è ancora vivo e il degrado morale della città è peggiorato. Le responsabilità sono diffuse ma in primo luogo c’è stata e c’è una classe politica dirigente che non ha saputo cogliere alcun insegnamento dal quel gesto estremo che vedeva da una parte l’affermazione di una cultura arrogante e dall’altra il tentativo coraggioso e solitario di un uomo che cominciava a dare segni di inversione di marcia a quel mondo politico che usava e si lasciava usare dalle facili connivenze con il malaffare.

Il 6 luglio c.a. alle 18.30, presso la “sala B. Finocchiaro”, il Liberatorio Politico incontrerà la cittadinanza per riflettere insieme sui fatti e misfatti accaduti in questi 17 anni e per affermare la necessità che la nostra comunità non può perdere la memoria di quel grave gesto avvenuto il 7 luglio 1992.

In ricordo di don Tonino

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don Tonino Bello
(Alessano, 18 marzo 1935 – Molfetta, 20 aprile 1993)


Diario da Sarajevo

Poi rimango solo
e sento per la prima volta una grande voglia di piangere.
Tenerezza, rimorso
e percezione del poco che si è potuto seminare
e della lunga strada che rimane da compiere.

Attecchirà davvero la semente della nonviolenza?
Sarà davvero questa la strategia di domani?
E’ possibile cambiare il mondo
col gesto semplice dei disarmati?

E’ davvero possibile che,
quando le istituzioni non si muovono,
il popolo si possa organizzare per conto suo
e collocare spine nel fianco a chi gestisce il potere?
Fino a quando questa cultura della nonviolenza
rimarrà subalterna?

Questa impresa contribuirà davvero
a produrre inversioni di marcia?
Perchè i mezzi di comunicazione
che hanno invaso la Somalia
a servizio di scenografie di morte,
hanno pressochè taciuto
su questa incredibile scenografia di pace?

Ma in questa guerra allucinante
chi ha veramente torto e chi ha ragione?
E quale è il tasso delle nostre colpe
di esportatori di armi
in questa delirante barbarie
che si consuma sul popolo della Bosnia?

Sono troppo stanco per rispondere stasera.
Per ora mi lascio cullare da una incontenibile speranza:
le cose cambieranno, se i poveri lo vogliono.

don Tonino Bello
(dal Diario della marcia di Sarajevo, dicembre 1992)

In ricordo di Don Tonino Bello

Nel 15° anniversario della sua scomparsa vogliamo ricordare Don Tonino Bello con una delle sue più straordinarie omelie che a distanza di tanti anni sembra essere ancora attuale.

OMELIA PER LA MESSA ESEQUIALE DEL
SINDACO DI MOLFETTA GIOVANNI CARNICELLA
* * *

Un delitto atroce. Assurdo. Sproporzionato (se mai ci può essere proporzione quando uno dei due termini del rapporto è la vita umana) nel movente e nell’esecuzione.
È la città che rimane sgomenta, mentre ripercorre all’indietro la sua storia, e vede per la prima volta le pagine della sua civilissima vicenda millenaria macchiate da un così funesto sfregio di sangue.
Incredibile. Un permesso negato, per oggettive ragioni di sicurezza, all’ambigua manifestazione del cantante di turno. La minaccia intimidatoria dell’organizzatore, sui gradini di una chiesa. La resistenza ferma e dignitosa del sindaco. Poi il fucile a canne mozze che, a distanza ravvicinata, ha chiuso il discorso. Ma ne ha aperto un altro. Inquietante e amaro.
È il discorso sul malessere della città. Un malessere che, in modo spesso maldestro, vogliamo rimuovere dalla nostra coscienza e del quale facciamo fatica a prendere atto, forse perché troppo fieri del prestigio del nostro passato. Un malessere che si costruisce su impercettibili detriti di illegalità diffusa, sugli scarti umani relegati nelle periferie, sui frammenti di una sottocultura della prepotenza non sempre disorganica all’apparato ufficiale.
È il discorso sulla rete sommersa della piccola criminalità che germina all’ombra di un perbenismo di facciata. Sulle connivenze col mondo della droga che ormai non risparmia nessun gonfalone. Sui rigagnoli sporchi che inquinano le falde sane di una economia costruita dalla proverbiale laboriosità dei nostri antenati, i quali hanno onorato Molfetta in tutti gli angoli del mondo.
Quello aperto dal fucile a canne mozze è il discorso sulla rimonta dell’idolo del profitto che, alla borsa dei valori, stravince perfino sulla sacralità della vita.
È il discorso sulla quota di violenza, inarrestabile nelle sue diramazioni sotterranee e clandestine, che, riportandoci più indietro della legge del taglione, ci conduce alla barbarie primitiva di Lamech, di cui parla la Genesi: «Ho ucciso un uomo per una mia scalfittura e un ragazzo per un livido».
È il discorso sulla ineluttabilità di certi gesti, che sono l’epilogo naturale di una temperie di disagio. Come un fiammifero, acceso sulla caldaia di una miscela esplosiva. Sì, questa è la vera tragedia: che chi ha sparato non è un mostro. Oh, come vorremmo che fosse un mostro, per poter scaricare unicamente sul parossismo della sua barbarie le responsabilità di questo assassinio! Ma chi ha sparato non è un mostro, e neppure un pazzo e forse neppure un criminale nel senso classico del termine. Non è un mostro. » un nostro! » un nostro concittadino, che, come ultima miccia, ha dato fuoco alle polveri di cui, almeno un granello, ce lo portiamo tutti nell’anima.
Ecco perché quel fucile a canne mozze apre un discorso alla cui logica nessuno di noi può sottrarsi, dichiarando ipocritamente la sua estraneità.
È il discorso del cuore di sasso che ci portiamo al petto, forse l’unica reliquia che ci è rimasta dell’età della pietra, e che, a dispetto dei progressi di cui meniamo vanto, ancora non è stato trapiantato con un vero cuore di carne.
È il discorso sulla rifondazione di un metodo educativo più serio e diuturno che dovrebbe vedere impegnate tutte le istituzioni, dalla scuola alla famiglia, nella creazione di argini che ci preservino dagli smottamenti verso la cultura dei cavernicoli.
È il discorso sul ruolo della Chiesa, dalle cui sedi catechistiche oggi passano tutti, senza purtroppo, portarsi nell’anima le stigmate benefiche di una cultura di nonviolenza e di pace. Ecco perché a Gianni voglio chiedere perdono anch’io, vescovo di questa città, responsabile di una Chiesa forse un po’ troppo attardata in una pastorale di contenimento e di conservazione, che stenta a uscire dai perimetri rassicuranti delle sagrestie per compromettersi con gli ultimi, ritrovando audaci cadenze missionarie, ed è ancora ben lontana dall’essere «testimonianza viva di verità e di libertà, di giustizia e di pace, perché tutti gli uomini si aprano alla speranza di un mondo nuovo».
Ma il fucile a canne mozze apre anche un altro discorso.
È il discorso sulla facilità con cui oggi si impallina la gente col sospetto sistematico, con la gratuità delle accuse, con la semina irresponsabile del dubbio. L’altra sera in ospedale ho visto la lastra del bacino del povero Gianni: sembrava un colabrodo. Ma non si riduce ugualmente l’uomo a un colabrodo quando gli si spara addosso la raffica del discredito, senza provatissime ragioni e per il gusto corrosivo della demolizione? O forse il piombo della lupara intellettuale, che colpisce le persone rimbalzando dalla carta dei giornali, è più aristocratico dei bossoli sparati dal rozzo fucile dei poveri, che rivendicano il diritto di uccidere anch’essi a modo loro?
È chiaro che qui il discorso cade sulla irresponsabilità di tanti chierici che, con criminale leggerezza e senza il supporto di verità saldamente provate, alimentano la protervia di chi, di fronte allo spettacolo del degrado istituzionale, si ubriaca del mito perverso della giustizia sommaria. È impossibile che, quando in alto si logora la fiducia nello stato di diritto, l’uomo della strada non si senta legittimato a pareggiare, con prepotenza plebea, la prepotenza in doppiopetto di certi politici corrotti, sparando nel mucchio.
Sì, l’omicida di Molfetta, sia pure a distanza ravvicinata e con un bersaglio preciso, ha sparato nel mucchio.
Resta la consolazione che a cadere sia stato un uomo onesto. Un amministratore coraggioso che stava dando chiari segni di inversione di marcia su certe arroganze consolidate. Un servo della città, alle cui leggi non ha voluto disobbedire.
Noi non vogliamo fare del nostro sindaco né un eroe né un martire. Sarebbe un distorcimento d’immagine per lui, e un sintomo pericoloso di fuga per noi. Ma vogliamo farne un segno. Questo, si. Il segno stradale di una conversione comunitaria che tutti insieme dobbiamo intraprendere con grande speranza.
Verranno tempi migliori. Lo sentiamo. La Parola del Signore ce lo ripete: «Non sia turbato il vostro cuore»! La legge della giungla ha le ore contate. La barbarie è giunta al suo ultimo crepuscolo. E il vecchio mondo è già entrato in agonia.
Ma perché nasca un nuovo ordine di giustizia e di pace, che veda il lupo pascolare insieme con l’agnello, dobbiamo accendere due lampade attingendo al Cero della Pasqua di Risurrezione.
La prima è la lampada della pietà. Che significa ebbrezza di vivere e di far vivere, rispetto assoluto dell’altro, riconoscimento della insubordinabile grandezza dell’uomo, culto della sua intangibile santità. E ci faccia gridare al sacrilegio ogni volta che alla vita si attenta col sopruso in piccolo o con la guerra in grande, con i fantasmi ricorrenti della pena di morte o con la cultura dell’aborto, con gli eccidi di Bagdad o con lo sterminio di Saraievo, coi rifiuto dei diseredati o con l’esclusione di tutti i Sud della terra che bussano alla nostra opulenta sala da pranzo.
 La seconda è la lampada della politica, intesa come maniera esigente di vivere l’impegno umano e cristiano al servizio degli altri. Una politica sottratta alla lussuria del dominio. Preservata dall’adulterio con i corrotti. Inossidabile alle esposizioni lusingatrici del denaro. Restituita finalmente alla simpatia della gente. E resa oggetto di una reverenza quasi sacerdotale, se è vera l’ardita intuizione di Giorgio La Pira che affermava: «La politica è l’attività religiosa più alta dopo quella dell’unione intima con Dio».

* * *

Cattedrale, 9 luglio 1992

La strada è lunga,
ma non esiste che un solo mezzo
per sapere dove può condurre,
proseguire il cammino.

(da “ Alla finestra la speranza”) di Antonio Bello.